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Channel: Cristiana Lauro – Intravino
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Richebourg 2009, Romanée-Conti. Si, mi piaccion gli sbarbini, e allora?

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Richebourg 2009, Romanée-Conti. Si, mi piaccion gli sbarbini, e allora?

Richebourg 2009 del Domaine de la Romanée-Conti è un vino spaziale. Troppo giovane? Un infanticidio, come direbbe qualcuno? Perché il termine infanticidio è brutto di per se ma diventa insopportabile se applicato al vino. Mi chiedo quale raffinato genio abbia concepito questo accostamento a un campo semantico che meriterebbe maggior rispetto. Il linguaggio del vino è spesso respingente, forse varrebbe la pena di approfondire l’argomento. Un vino giovane, anche troppo giovane, non ha nulla da spartire con l’uccisione di un bambino, quindi proporrei il bando assoluto del termine.

Richebourg 2009 è una bevuta precoce ma ha i suoi pregi. La parte olfattiva è infinitamente piacevole e stimolante. Mora, frutti rossi scuri, principalmente prugna, chiaro segnale di gioventù, e poi bacca di vaniglia tropicale, così difficile da trovare in Italia. La sua fragranza è definita, scolpita con precisione, estatica nel risultato. In Borgogna l’annata 2009 è stata più felice per i bianchi, sostiene qualcuno, ma questo pinot noir ha tanto da dire e lo dice molto bene. La bocca, coerente con l’aspetto olfattivo, sa di amarena e prugna con una sottile speziatura, ha una struttura eccellente, un po’ rustica ma con una progressione che non dà tregua al piacere del palato. Evolverà benissimo, grazie anche a una buona acidità, ma è una delizia da bere sin d’ora anche perché col cacchio che ritroveremo questo naso, fra qualche anno.

Ecco un vino che descrive fedelmente i miei gusti preferiti: gioventù, immediatezza e bevibilità. È ciò che l’ Erode di cui sopra definirebbe con l’espressione “vino gastronomico”, ma anche questo rientra in un gergo approssimativo che sopporto sempre meno. È un vino di grande beva, tutto qua. Richebourg DRC 2009 è un giovane, bello, fresco, sorridente, tonico e poi la gioventù rende riconoscibili quando, invece, un eccessivo invecchiamento causa ossidazione ed omologa, rendendo difficile distinguere anche le zone e i vitigni di provenienza.

Una bottiglia molto giovane non permette di sentire l’intera gamma di aromi e sensazioni gustative, si sa, ma di prevederli poiché c’è già tutto anche se in fieri, non pienamente realizzato. Un eccesso di invecchiamento, di contro, ci presenta un vino in fase calante e quei sentori olfattivi fragranti di cui parlavo, quando la bocca sarà distesa, non torneranno più, appiattiti dall’ossidazione.
Ebbene sì, lo ammetto senza pudore: mi piaccion gli sbarbini.


Ora me li son fatti tutti: Dom Perignon Oenoteque Rosé 1982

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Ora me li son fatti tutti: Dom Perignon Oenoteque Rosé 1982

All’asilo ero fidanzata col piccolo Corrado. Poi, nel tempo, ricordo Rocco, Stefano e una breve parentesi di matrimonio. Dopodichè, per problemi personali di ossidazione, ho appeso il perizoma al chiodo e mi sono dedicata esclusivamente alle grandi bevute. Dom Perignon Oenoteque Rosé 1982 in magnum, però, mi mancava. Insomma, me li sono fatti tutti, o quasi.

Ultima importante uscita sul mercato, è una bottiglia rara. A Roma ne è atterrata solo una che non c’è più perché me la son sparata l’altra sera con un amico. La sboccatura è del 2004, scelta curiosa quella di tenerlo in cantina otto anni prima di proporlo sul mercato, bisognerebbe chiedere il perchè a Richard Geoffroy, lo chef de cave. Nonostante l’annata eccellente, questo vino non ha la potenza dell’85, uscito qualche mese prima, dopo un ’92 molto buono e un ’90 monumentale che fu il primo millesimo in commercio. L’annata ’85 in Champagne è stata speciale, migliore dell’82, il contrario di ciò che ricordo a Bordeaux.
Nel bicchiere Oenoteque rosè ’82 si presenta di colore deciso ma il naso inizialmente è chiuso e non si concede prima di una mezz’ora dall’apertura, svelando un lieve sentore ossidativo quasi impercettibile.

La bocca rispetto all’85 (degorgément 2006, prodotto solo in magnum) è più esile benché elegante e molto armonica, con sentori piacevolissimi di cassis e una leggera speziatura, costante in tutti i millesimi provati. Salino, secondo lo stile della casa, e molto armonico per acidità bella eretta a sostegno di un frutto non potente ma di grande finezza ed eleganza. Il perlage è ineccepibile, mentre il finale in lunghezza perde di poco la partita con l’85, pieno e interminabile.

Al mio appello manca solo l’88, sboccato nel 2004 e in vendita da poco in versione magnum. Se non mi batte sul tempo qualcun’altra più spregiudicata, ho intenzione di farmelo al più presto, sul bancone di un wine bar.

Hai mai regalato alla tua donna una bottiglia di vino? Senza conseguenze, intendo

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Hai mai regalato alla tua donna una bottiglia di vino? Senza conseguenze, intendo

Avete presente quei post prenatalizi che suggeriscono vini da regalare a una donna, prodotti da un’altra donna e suggeriti da una terza donna? Bene, ne state giusto leggendo uno. Do per scontato che le abbiate già comprato, a colpo sicuro, il regalo di Natale, considerando i ripetuti cenni su quella borsetta di marca che, per essere reconditi, parevano piuttosto manifesti. A lei però il vino non dispiace e, sebbene non sia una grande esperta, mostra un certo talento in assaggio, come spesso capita alle donne. Ordunque: volete accompagnare con una buona bottiglia la gioia di madame quando l’apertura del pacco svelerà la parola magica Balenciaga? Chiariamo subito che il mio primo suggerimento sarebbe Arianna Occhipinti, non il vino, proprio lei! Solo che non è in vendita, altrimenti me la sarei già regalata da un pezzo, quindi andiamo al sodo.

Foradori Teroldego 2009. Azienda biodinamica certificata. Un vino che bevo da anni e trovo sempre più buono, affinato in legno e di grande bevibilità, con un frutto piacevolissimo, netto, preciso. Bottiglia brillante che vale più del suo prezzo in scaffale, intorno ai 16 euro. Non conosco bene Elisabetta Foradori, la produttrice, ma questo non mi impedisce di amarla a distanza. Con questo vino colpite sicuri e su larga scala, dalla degustatrice esperta alla debuttante, dalla giovane un po’ ridotta, alla decana in piena ossidazione.

Tenuta di Fessina, Etna bianco sup. A’ Puddara 2010. Prodotto in soli 3.000 esemplari da Silvia Maestrelli, è uno dei pochi vini bianchi italiani che bevo con grande piacere. Da uve caricante, ricco e complesso al naso, fresco e dinamico in bocca, ha la piacevolezza sottile dei terreni vulcanici da cui proviene. Costa circa 22 euro. Perfetto per la donna elegante, di buon gusto e raffinata. Insomma una che quella borsa di Balenciaga, volentieri ve la tirerebbe dietro, ma non lo fa.

La Stoppa Macchiona 2007, di Elena Pantaleoni è un vino biologico dei Colli Piacentini prodotto con barbera e bonarda in parti uguali e a fermentazione spontanea. Grande carattere, nient’affatto banale, vino che potrebbe sorprendere nell’invecchiamento. Costa circa 20 euro e lo trovo un omaggio perfetto per lei che non ama le convenzioni, se si fa eccezione per la Balenciaga che la manda in brodo di giuggiole.

Monsanto Chianti Classico ris. Il poggio 1995. Non è facile da trovare, io l’ho provato recentemente guidando una degustazione di sangiovese. Trattandosi di gentile omaggio di Laura Bianchi, la sua produttrice, non ho la minima idea di quanto costi. Monsanto è probabilmente il mio preferito fra i Chianti Classico e, con questa bottiglia, garantite una bevuta matura, che sa di sangiovese, con una bocca ben formata, ricca e tutt’altro che ossidata. Perfetto per la femmina esperta e sicura di sé, soprattutto quando parla di vino e di borse di classe, che possiede di suo, senza bramar le vostre regalie.

Maccario Dringenberg Rossese sup. Luvaira 2010. Un vino che dà soddisfazione, da bere a secchiate per quanto piacevole. Cerco di bere Rossese più che posso a casa mia e questo di Giovanna Maccario è fra i miei preferiti. In bocca è un trionfo di gusto, un bel concerto per il palato con un’acidità spiccata su un frutto delizioso. Circa 18 euro. Lo riserverei a una donna brillante e spiritosa. Una che non rompe i coglioni, nè sui vini, nè sulle borsette, per intenderci.

Marie-Courtin Résonance brut. Chiudo con uno Champagne assai curioso, un blanc de noir affascinante e rigoroso. La vigneron è Domenique Moreau, che ha convertito l’azienda alla biodinamica certificata, producendo poche bottiglie di altissima qualità, a prezzi abbordabili, circa 50 euro in scaffale. Vino minerale, acido, con una bella speziatura, una struttura ricca e una persistenza notevole sul finale. La regalerei a una donna dal palato educato, colto ed esigente. Una che avrebbe preferito Hermès a Balenciaga ma evita con classe di farvelo notare.

Leoville Las Cases 1961 batte i coetanei con le tette (Cheval Blanc e Domaine de Chevalier)

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Leoville Las Cases 1961 batte i coetanei con le tette (Cheval Blanc e Domaine de Chevalier)

Perbacco! Anche stavolta non sono d’accordo con Robert Parker. 85/100 a Leoville Las Cases 1961, uno dei migliori vini che io abbia mai bevuto, sono davvero pochi. In una garetta tra coetanei, Cheval Blanc e Domaine de Chevalier sono usciti con le ossa rotte. Vediamoci chiaro.

La 1961 fu annata gloriosa a Bordeaux e, se escludiamo i Sauternes che hanno visto momenti migliori, un piccolo confronto fra zone diverse può risultare interessante. Da allora molte cose sono cambiate: a quel tempo si vinificava solo in legno e il controllo delle temperature era di là da venire. Gli stessi vini, provati in annate recenti, tracciano un percorso diverso, comunque di innegabile valore. Vediamo come si sono comportati tre campioni dell’invecchiamento di una zona che amo sopra a tutte. E ciccia se non sono à la page.

Chateau Leoville Las-Cases 1961, St. Julien. Questa bottiglia, eccellente ha impiegato parecchio tempo ad aprirsi e non era buona come quella che provai lo scorso anno, quando mi venne la permanente per l’emozione. St. Julien è la mia zona prediletta a Bordeaux e le parole chiave per definirla sono equilibrio e armonia. Leoville Las Cases 1961 (2ème Cru, per quel che conta la classificazione) è la sintesi dell’eleganza tipica dell’area da cui proviene, vicinissima a Latour e caratterizzata, nell’uvaggio, dalla prevalenza di cabernet sauvignon. Il colore è rosso granato abbastanza intenso e il naso, inizialmente un po’ animale, in questo caso svela un frutto netto e preciso con sentori erbacei e di cuoio leggermente affumicati, peperone verde arrostito e una lieve speziatura. La bocca, brillante, corrisponde al naso, non gioca sulla potenza ma sull’eleganza, sulla classe e su uno stile che lo distingue dal resto, con cui si confronta avendo quasi sempre la meglio. Finale lungo, pieno e appagante. Fra i più grandi Bordeaux che io abbia mai bevuto.

Domaine de Chevalier 1961, Graves. Cru classé molto buono, ancorché superato in zona da Haut-Brion, si distingue per l’eleganza e per la sensazione setosa al palato. È l’espressione precisa di Graves, fresco e pulito in bocca, non cede all’ossidazione ma gli manca quella marcia in più che ho trovato in Leoville Las Cases. Sa ancora di lampone (pensate un po’!), ha buona acidità e una trama tannica senza sbavature, non particolarmente fitta ma dolce, morbida ed elegante. Il finale è abbastanza persistente ma con una lieve chiusura amarognola.

Chateau Cheval Blanc 1961, St Emilion. La percentuale di cabernet franc lo marca parecchio, la quota di merlot arrotonda, ammorbidisce, avvolge, avvicinando a Pomerol questo grande vino che, tuttavia, mi ha un po’ delusa. St. Emilion dà vita a vini affettuosi, seducenti, avvolgenti e che coccolano, come questo Cheval Blanc: insomma un vino con le tette, per dirla col poeta. Inizialmente introverso al naso, con un colore fitto, scuro come l’inchiostro, dispiega, invece, una bocca ematica, carnosa, vellutata e incredibilmente giovane. L’attacco è potente, ricco, e centro bocca il vino si allarga e si concede tra sentori di liquirizia e cuoio che non cedono sul finale, lungo e persistente.

Non è mai stato il mio preferito a Bordeaux ma lo riconoscerei fra mille ed è comunque un grande vino, anche se St. Julien è un’altra storia e Leoville Las Cases la racconta molto bene. Se non vi fidate, investite qualche risparmio nell’annata 2000: l’ho provato pochi giorni fa e vi dico che è una gioia per chi ama i grandi vini.

Quello che non funziona nel vino naturale, tra l’altro

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Quello che non funziona nel vino naturale, tra l’altro

Bistrot Paul Bert, pochi giorni fa a Parigi, (XI). Il sommelier mi offre un calice di Champagne. Puzzava di buccia di salame e fomaggio. Gli ho detto che non avrei continuato a bere quel bicchiere perché non era di mio gusto. Mi hanno spiegato, a proposito di rivoluzione gastronomica alimentata dai vini d’avanguardia, che quel vino non faceva male, era una vino naturale e io avrei dovuto educare il mio palato a superare il disgusto di quel calice. Ho risposto: scusi ma perché? Allora mi dia un bicchiere di acqua minerale che fa ancora meno male, mica me l’ha ordinato il medico di bere alcol. Se un vino non mi piace non voglio abituarmi a berlo, io bevo per piacere non per il gusto di ingerire alcol. Sono intervenuti due ragazzi che, sostenendo le ragioni del portavoce, avanguardista sommelier, mi hanno spiegato che i palati come il mio vanno educati e che un vino senza caratteristiche di questo genere (difetti, puzze) non è affidabile, non è naturale.

Credo che tutto questo faccia male a molti bravi produttori che credono realmente in quello che fanno e producono vini che non hanno bisogno di puzzare per dimostrarmi quanto sono naturali o biodinamici. Parigi è la città della moda e non solo per quanto riguarda l’abbigliamento. I vini naturali a Parigi sono diventati di moda da qualche anno. Sì, sì, proprio di moda, null’altro. Arriveremo al paradosso di aggiungere fialette puzzolenti ai vini per renderli “naturali” e appetibili ai palati del pubblico che si sta formando su questa tendenza che oramai è moda, esattamente come quando si aggiungevano le chips per aumentare quel meraviglioso sentore di Ikea, di legno scadente. Io non mi fido.

[Foto: 716-food.com]

Non so voi ma io sono per la convivenza. Anche quando parliamo di vino

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Non so voi ma io sono per la convivenza. Anche quando parliamo di vino

Rifuggo da sempre le convenzioni, mi guardo bene dai preconcetti su persone, cani di piccola taglia e uomini col borsello. A tavola, mi capita di scegliere bottiglie molto distanti fra loro, alla faccia dell’abbinamento col cibo. Evito accostamenti temerari,  ovvio! Non mi servono maestri per capire che non devo brutalizzare i delicati manicaretti della Parodi bevendoci sopra l’irruento Monfortino ’78.

L’approccio al vino deve essere laico, se n’è parlato fin troppo e ovunque, ma cosa è paragonabile e cosa no? Quasi tutto, grazie a Dio e, a mio avviso, molti vini possono convivere serenamente allo stesso tavolo: quindi sfogatevi e fate come cacchio vi pare.

C’è, ad esempio, un vino di Joly che mi piace molto, il Savennieres Vieux Clos 2009, biodinamico, la  versione piccola di Culée de Serrant che un po’ ricorda nelle vecchie versioni, quelle che non mi dispiacevano. Savennieres è una denominazione piccolissima, praticamente un francobollo (ammesso ricordiate cosa sono) e Joly ha saputo tradurre la minorità della sua denominazione in beneficio. Il colore è decisamente carico e al naso percepisco, inizialmente, una tediosa macerazione e fiori secchi, insieme a note verdi un po’ troppo fienose, gradevoli anche, ma monocordi. La bocca è ricca, pingue direi, piuttosto carica ma fresca e mi piace. Lo trovo un ottimo passatempo, soprattutto se hai già aperto un’altra bottiglia, così lo sgargarozzi  con lena.

Il secondo vino è Terlano, Rarità, chardonnay 1999 che, in questo caso, si caratterizza per non azzeccarci una mazza col primo. Ha un interessante sentore di idrocarburi al naso, quasi una nota di riesling e frutti bianchi. In bocca è avvolgente e molto lungo, con una spina acida perfettamente eretta  sino al finale. Ha personalità, carattere e molta distanza non solo da Joly, ma un po’ da tutti i maestri francesi dello chardonnay.

Due vini che non fanno scopa ma perfettamente conviventi allo stesso tavolo, senza bisogno di gridare allo scandalo. La personalità spiccata dello chardonnay e la convenzionalità macerativa del Vieux Clos. Qualcosa in contrario? Per me no, sono da sempre favorevole alla convivenza.

Le stagioni dell’amore e il vino buono. Un romanzo post di formazione

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Le stagioni dell’amore e il vino buono. Un <strike>romanzo</strike> post di formazione

Ma chi è quella bella biondina dagli occhi verdi, col musetto vispo che sembra un furetto? A chi avrà rubato quello sguardo scintillante, sempre acceso come le miccette di Supergiovane? Non puoi sbagliare, non può che essere lei: è la donna della tua vita!

IL PRIMO APPUNTAMENTO
Sei a Sense of Wine che gironzoli smarronatissimo come a Natale quando a tombola vince tutto nonna dopo aver chiesto trenta volte se è uscito il numero 15. Ti accorgi di lei, la guardi, la osservi, mentre beve un vino mai sentito prima, il Ruchè. Non lo conosci, ma che importa? Lei ti piace, a lei piace il Ruchè e, una volta carpito il cellulare, anche a te piacerà il Ruchè. Tracanni con lena tre, quattro, dieci bicchieri di Ruchè, ti sbronzi come un Ussaro e scatta il progetto: dove la porto? Eviti il posto più figo della città perché troppo costoso, ma anche la trattoria sotto casa; troppi amici che potrebbero distrarti dall’approccio o sputtanarti sul più bello tirando fuori la solita vecchia gaffe, quel maledetto ever green riesumato a ogni pié sospinto e del cui ricordo faresti volentieri a meno.
Te la caverai proponendo tre alternative, lei sceglierà la più costosa e sulla carta dei vini l’unico buono avrà un prezzo eccessivo, ma sei in ballo e devi ballare. La vostra prima cena insieme sarà giustamente annaffiata da un ottimo Champagne: Egly Ouriet, gustoso pinot nero perfetto per le coccole.

IL VINO DELLA PRIMA VOLTA
Finalmente accetta un invito a casa e il tuo pomeriggio da massaia, dove hai scampato solo bigodini e ceretta, non va sprecato: ne è valsa la pena! Ci tieni da morire, questo non è il solito rimorchio da una botta e via, con la bella biondina ti vuoi fidanzare, in cuor tuo c’è Il Tempo delle Mele, anche se con la testa pensi a Titanic e, dalla vita in giù, ad Ultimo tango a Parigi. Candele accese piazzate un po’ ovunque, per creare atmosfera e coprire quelle brutte macchie alle meste pareti che, da anni, chiedono una rinfrescata. Hai cosparso l’intero impianto elettrico di macchinette che nebulizzano l’ambiente con delicati effluvi di gabinetto d’autogrill; tant’è che, nel corso della serata, ad ogni esalazione, saliverete entrambi come il cane di Pavlov, invocando due Rustichelle.
A ragion veduta hai fatto sparire le tracce di una dissoluta vita da single, come lattine vuote di birra, piene di cicche spente, e calzini lerci nel cesto dei panni sporchi. La funzione “casuale” sull’i pod riprodurrà, casualmente, solo monnezza, tutti i lato B dei dischi che avevi caricato, con precisione infallibile, nessuno escluso.
Pensando al dopocena ti sei orientato su cibi leggeri e niente Champagne per evidenti problemi di borborigmi. Al bando anche aglio, cipolla, brodo di carne, verdure cotte e legumi in qualsiasi forma. Hai fatto addirittura sparire quella riproduzione della celebre lattina di zuppa Campbell’s di Andy Warhol, non si sa mai che possa avere effetti evocativi, mandando in vacca la serata.
Ma il tuo impegno sarà premiato; lei arriva ed è più bella del solito, ha portato il vino e non desidera altri che te. Dissolvenza su Luvaira Rossese sup. 2010 di Maccario Dringenberg, servito fresco come aperitivo. Perchê non si vive di solo Ruchè… e scatta il primo bacio.

LA PRESENTAZIONE DEI CONSUOCERI
Una coppia più formale e l’altra più yèyè, situazione drammatica che richiede: un ristorante-ambiente, una doppia magnum di Guttalax da versare generosamente nel bicchiere di Nonna Papera (la madre di lei) e un vino veramente speciale come Brunello di Montalcino ris. 2006 Poggio di Sotto, un sangiovese monumentale come ce ne sono pochi.

IL VINO DEL PRANZO DI MATRIMONIO
Sei felice come una pasqua, fai il gradasso e spari subito alto: “Vietate le bolle italiane, che sia Champagne rosè, più romantico, Ruinart, per esempio!”
Come bianco per cominciare Chablis Pic Premier di Albert Pic, mentre il rosso sarà Ornellaia, servito come se piovesse. Solo che quando arriva il preventivo ti ritrovi calvo in un batter d’occhio e accetti, tutto d’un tratto, la prima proposta del catering a base di Falanghina Grotta del Sole e Morellino di Terenzi. Carpenè Malvolti, come prosecco, sarà perfetto anche per chi gradisce le bollicine a tuttopasto.

IL VINO DELLA CRISI
Dopo un pranzo di nozze del genere, il matrimonio non poteva che finire a porte in faccia. Tenti una riconciliazione al Relais Blu (che hai inutilmente cercato su Groupon), con tanto di camera con vista sui faraglioni di Capri. Ti costa un occhio della testa malgrado la bassa stagione che evinci dal nebbione che avvolge e oscura i faraglioni e tutto il Golfo di Napoli, unica speranza di salvare un matrimonio a pezzi, visto che il ristorante è nel suo periodo di chiusura invernale.
Il room service servirà una cena fredda ma mai come il vostro rapporto. Vi addormentate schiena contro schiena, con bel Greco di Tufo in corpo, marca Mastroberardino.

Ho passato San Valentino senza piccioncino ma mica male, vero?

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Ho passato San Valentino senza piccioncino ma mica male, vero?

Son sincera: per me S. Valentino è una festa importante e piacevolissima. La attendo ansiosa tutto l’anno, con animo gioioso e vistose aspettative. Ieri sono rimasta a casa come una sfigata perché non mi si è filato nessuno ma ho invidiato di brutto quelle belle coppie innamorate che festeggiano in trattoria e si tengono per mano tutta sera, scambiandosi bocconi unti e sugosi mentre complici e ammiccanti giocano con la cera calda della candela centrotavola. Due bucatini all’amatriciana a te, un po’ di trippa a me, una costoletta d’abbacchio a te e una polpetta al sugo a me. Amo’ ma un bel maritozzo non lo prendiamo? Che dici ci farà male? Maddai che è S. Valentino, anzi, sai cosa ti dico? Dopo ‘ste du’ caraffe di vino sfuso, che ho scoperto da Eataly ed è buono, libero e costa meno, mi faccio pure un bicchiere di Romanella dei Castelli romani. Buona la Romanella coi biscottini che fanno zuppetta sul fondo e io me magno pure quella. Tu amore, non prendi niente? Un Lucano, un amaro Braulio, un Limoncello? Vada per il Limoncello, dai! Beati loro, che serata da principi e chissà che notte scoppiettante con quel bendidio sullo stomaco. Valeva la pena di investire 12 euro per quel completino viola in saldo da Yamamay.

Io non ho festeggiato S. Valentino ma con la mia cagnolina ho trascorso una serata più che dignitosa assaggiando due etichette niente male.
Prüm Riesling Whelener Sonnenhur 2004 Spätlese è un vino che accompagna con gentilezza l’invecchiamento. Si apre con accenno di idrocarburo e poi agrumi: pompelmo e cedro. In bocca è ricco senza esuberanze e si distende piacevolmente con equilibrio impeccabile tra acidità e residuo zuccherino. Amo il Riesling, è il più grande vitigno bianco al mondo e con la versione Spätlese posso pasteggiare senza dolcezze sfacciate e stucchevoli.
A seguire ho aperto un Bordeaux che avevo acquistato en primeur alcuni anni fa: Chateau Leoville-Barton 2003St. Julien, zona che prediligo. L’annata è stata calda un po’ ovunque, torrida qui da noi dove ha prodotto prevalentemente vini mediocri e poco longevi. A Bordeaux è andata meglio e infatti questo vino si presenta scuro come l’inchiostro, ricco ma privo di segni di cottura o sentori di marmellata. Al naso resta chiuso per la prima mezz’ora ma quando si apre è un’esplosione. La bocca è serrata, fruttata ma ancora molto giovane. Ottima acidità e buona texture, perfettamente in equilibrio col grado alcolico, garantiscono longevità e io dico che un’altra quindicina d’anni Leoville-Barton 2003 se li può permettere tutti senza batter ciglio.

Certo, quei due là in trattoria avranno visto i fuochi d’artificio nel dopocena, ma io e la mia Carmelina non siamo state così male. E poi, ogni storiella come la mia è ben accetta. Anche di coppia, voilà.


Cinque maschi da evitare a costo di rimanere zitella

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Cinque maschi da evitare a costo di rimanere zitella

Una che in passato ha scelto di essere single può cambiare idea, no? Si può riesaminare una decisione presa in altri tempi quando una (a caso…) pensava solo a divertirsi, alla libertà, all’indipendenza e non sapeva a chi dare i resti per il codazzo di corteggiatori che arrivava fino a Capo Nord (Capo Horn, in alta stagione, quando erano veramente tanti)? Bei tempi! Allora le cose giravano diversamente, si bevevano grandi bottiglie e non c’era la crisi. Insomma, col muro di Berlino ancora in piedi, come cacchio facevo io a sapere che sarei rimasta zitella?

Ok, tutto chiaro, ho toppato, a chi non succede? Prima che partano gli  incentivi statali per la rottamazione, devo darmi una mossa e trovare un fidanzato. Un tempo ero molto rigida ma ora riadeguo gli standard, abbasso l’asticella e ‘ndo cojo, cojo, qualcosa troverò! Mi basterà evitare i seguenti soggetti:

Il body builder
Vabbè non è il massimo, ma c’è di peggio. Intelligenza moderata ma sufficiente per vincere a Ruzzle prima versione, quella in cui tra parole che non significavano una fava e lallazioni, facevi punteggi da record. Ha investito tutto sull’acido lattico (inutile trasformazione dell’acido malico a mezzo di esercizi fisici malagevoli, con posture ridicole). Perennemente tirato come un tamburo (talento inutile quanto l’orecchio assoluto o avere il fegato grasso senza essere nati in Francia) è, inspiegabilmente, a piede libero malgrado esibisca una tartaruga sulla pancia che, a quanto ne so, è una specie protetta. Il body builder se ne frega bassamente del vino ma possiede un chip commutatore istantaneo, fra le tante aree vuote del cervello, che a ogni sorso converte in giri di tapis roulant, piegamenti e flessioni, il contenuto calorico del vino ingerito, permettendogli di bruciare in giornata anche una damigiana di Amarone. Vi offrirà vini palestrati come lui. Tannoni e non tannini, schiaffi, non carezze. Preferirà Roberto Voerzio a Giacomo Conterno.

L’esperto di vino
Da evitare come le pozzanghere. Si impunta sulla differenza fra l’85 e l’88% di sangiovese su un Nobile di Montepulciano 2006 imbevibile, che sa di spinacio esausto, dando ragione a qualche voce inascoltata. Insiste nel proporre bianchi macerati, malgrado abbiano perso smalto come la manicure della sora Franca del terzo piano. Inciampa, compiacente con se stesso, tra la ricerca della tipicità, il fascino di un cabernet del Vulture, la novità del merlot di la Morra e altre idiozie che spara a raffica sul suo blog, dove si avvicendano più argomenti che lettori. Fa tutto da solo, commenta i suoi post con uso ingenuo di nick name. Ossessivo e sovrabbondande nel commentare sotto copertura, di solito finisce per sfidare inconsciamente il lettore lasciando tracce e indizi un po’ ovunque per farsi scoprire, come un serial killer. Ma il lettore non se lo fila di striscio e il risultato per lui sarà una forma di schizofrenia senza speranza e l’inevitabile, provvidenziale, chiusura del blog. Mentre lo evitate, bevete uno Champagne della madonna, come Salon ’99, che ora è perfetto.

Il filatelico solenne
Fronte alta, capelli radi lavati di rado, riporto aggressivo. Pedante, puntiglioso pignolo, puzza di armadio chiuso (non aprite quella porta!). È da sempre un provolone acchiappesco. Abito Facis ma anche Oviesse, ex elegante di pessimo portamento e peggior uso di mondo, ha stima della donna pari a zero, la considera solo come oggetto sessuale che non saprà soddisfare, non avendo mai capito le istruzioni per l’uso. Il suo vino sarà Castello di Ama, Casuccia 2007, impostato, solenne e un po’ polveroso.

L’abbonato di Sky
Per i sessantaquattresimi di finale di coppa del Ghana vi molla sole a casa, ma vi preferirà anche un match di criket tra Pakistan e Bangladesh o una partita di curling femminile che è noioso come il beach volley ma almeno nella pallavolo due chiappe le spizzi (cfr guardare in tralice). Negli intervalli delle partite trova serie TV vecchie e nuove che incasina mentalmente fino a raccontarvi di Starsky che limonava con Carrie di Sex and the city mentre Hutch giocava a stecca con Jack Bauer. Il suo vino preferito è l’Amarone di Tommaso Bussola, un vino-divano che si adagia in un attimo, spaparanzato nel bicchiere come fosse sul sofà di casa sua. Tuttavia, con ridda di secondi fini, cercherà di offrirvi il Franciacorta di Caprai e il Sagrantino di Bellavista. Nessuno sarà alla vostra altezza. Se ci cascate sono cacchi vostri, ma non dite che non ve l’avevo detto.

Il vicino di casa
Ullalà che bel tipo acqua e sapone! E che modi garbati e ammalianti, solo per dire buongiorno e buonasera in ascensore. In realtà ha vissuto sette vite, a parte il Sacro Romano Impero, ne ha fatte più di Carlo in Francia sotto tutti i punti di vista, ma si è ripulito bene, al punto di beffare anche la vostra indole un po’ ingenua. Dai, un pensierino l’avete fatto fin da subito e questo non è tipo è da una botta e via. Minimo due, tre, anche quattro! Da due a cinque, secondo la guida del Touring club. Insomma vi siete fatte un film, senza scambiarvi una sillaba benchè il sonoro nel cinema esista da un centinaio d’anni. Però voi sognate il Tempo delle mele mentre lui rimpiange il tempo delle pere. Altrettanto rivelatori i suoi gusti in fatto di vino. Non i soliti Barolo barriccati, cabernet del mezzogiorno o un merlot di mezzanotte; l’uomo ha studiato e sfoggia un inaudito chardonnay macerato marca Marabino di Pachino che illumina i lati più reconditi del suo fosco carattere. Oppure  un cortese di Gavi, affilato e minerale, talmente etereo da risultare irraggiungibile nel bicchiere, praticamente introvabile come sarà lui in caso di bisogno: materia da “Chi l’ha visto” più che da Gambero Rosso.

[Foto: Francesco Bertocci]

Il vino di Rocco Siffredi, con dedica speciale ai bacchettoni ipocriti del vino

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Il vino di Rocco Siffredi, con dedica speciale ai bacchettoni ipocriti del vino

Una buona ragione per rientrare a Roma soddisfatta, dopo l’ultimo Vinitaly, quest’anno ce l’ho. Rocco Siffredi, star del cinema hard internazionale, accompagnato da Rosza, moglie gentile, elegante e bella che più bella non si può, al grido di “Non solo magnum!” è apparso puntuale in fiera per presentare Rocco, un rosso abruzzese dal carattere sanguigno come il montepulciano con cui è prodotto dal suo amico Jarno Trulli, pilota di Formula 1 che ha vigne e cantina in Abruzzo. Un’amicizia, un vino e parecchia folla, perché Rocco Siffredi piace, è affabile e molto divertente.

Rocco e Rosza stanno per inaugurare a Budapest il primo “Rocco’s world caffè”, luogo di convivio per mangiare, bere un calice, acquistare gadgets di ogni genere nonché sbirciare, su appositi schermi, i backstage della casa di produzione di proprietà dell’attore, inclusa qualche ripresa in diretta dal set.

Ho accettato, non senza ironia, di collaborare come ufficio stampa e PR al progetto e mi sono divertita, anche perché i media extrasettore, cui si rivolgeva principalmente la mia comunicazione, sono spesso meno affettati e baciapile di alcuni giornalisti e blogger del vino. Fa male dirlo ma è così. Viva la faccia di intramontabili campioni come Sara Simeoni e Francesco Moser (anch’egli produttore di vino in Trentino) che sono venuti per provare il vino e fare una foto con Rocco e viva anche Alessandro Morichetti e tutti gli altri, da Slow Food a Wine News, che hanno preso con lo spirito giusto questo momento di puro divertimento, gioco dietro al quale, tuttavia, c’è un progetto molto meno ingenuo di quanto il pubblico bigotto sia disposto ad immaginare.

Ho ricevuto molte critiche sotto traccia, subdole e malcelate; la barba bianca dell’ipocrisia strisciante di alcuni farisei, che fa sorridere e alzare gli occhi al cielo. Gente di settore e produttori di vino. Sono libera e alla morale non ci sto, mi fa venire le bolle. Ce l’ho coi bacchettoni del vino perché hanno qualcosa da nascondere e con quel rigore morale farlocco non difendono principi ma solo i propri interessi. Avrebbero puntato il dito comunque, chiunque di noto si fosse presentato al posto di Rocco. Perché, se sei famoso, diventi automaticamente brutto e cattivo.

Un addetto ai lavori locale ha scritto che queste cose fanno male all’Abruzzo. Forse chi fa vini anonimi, privi di personalità, dissipando il patrimonio rappresentato dal montepulciano, sarà il principale responsabile se l’Abruzzo dovesse farsi male, cosa che non prevedo, a giudicare dalla vasta affluenza quest’anno al padiglione. E forse fanno ancora peggio quelle grandi aziende che giocano con l’autoctono in etichetta per poi vendere a prezzi da hard discount. Ecco chi può far male all’Abruzzo, altro che Rocco!

Capire alla svelta come vendere il vino in Cina. Dove i blogger fanno tendenza, altroché

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Capire alla svelta come vendere il vino in Cina. Dove i blogger fanno tendenza, altroché

Sono di ritorno da un interessante viaggio di lavoro in Cina, tra Pechino e Shangai, dove ho incontrato ristoratori, sommelier, distributori di vino, responsabili acquisti food & beverage di due importanti catene alberghiere internazionali  (presenti nelle due metropoli), e qualche giovane più sveglio di altri che sta per avviare un’attività di importazione e distribuzione di prodotti alimentari dall’Italia e che terrò d’occhio con fondato interesse. Sentivo la necessità di rendermi conto da vicino di ciò che accade in un paese con una crescita rapida e sconvolgente, per certi versi, soprattutto per noi europei, poiché la crisi grave del nostro continente è sì del debito e della moneta, ma anche, innegabilmente, della capacità di produrre idee e progetti innovativi, purtroppo. (Suggerisco un’interessante lettura: Tra poco la Cina, di Davide Cucino, sinologo che vive a Pechino dagli anni ’80).

La Cina online corre come un treno, difficile starle dietro soprattutto per noi, ancora così ostili nei confronti della rete. Là il mercato ecommerce, ad esempio, è molto sviluppato e non solo nelle grandi metropoli: dai computer alle merendine, gli acquisti online sono pratica quotidiana un po’ per tutti. C’è una larga diffusione dei blog in Cina, postano e commentano come forsennati e c’è gente che è arrivata a 500.000 follower in poco tempo. Le persone che conquistano così visibilità e credibilità sono molto considerate e, qualunque sia il settore, diventano opinion leader, non poveri dilettanti come noi. In Italia, invece, mi pare che il pubblico si divida fra chi non usa la rete (ancora troppi) e chi la teme, quindi tenta di contrastarne la diffusione parlandone male, come fosse un gioco di squadra, una questione di schieramenti.

Che in Cina sia crescente l’interesse nei confronti del vino e del vino italiano, è dato acquisito e tema trattato, oramai, anche sulle riviste dal barbiere. Non è altrettanto scontato che questo si traduca in consumi diffusi immediati. Non basta, a quanto ho visto, darsi pena per piazzare bottiglie di vino presso un distributore, confidando che questi le rivenda ad un pubblico che di vino sa quasi nulla. Il fatto che in etichetta sia indicata la data di scadenza la dice lunga sulla cultura dei cinesi in materia. Però il vino li affascina e li sta conquistando, tant’è che lo producono e gli enologi sono di scuola francese, (Bordeaux, ça va sans dire). Se non ci lasciamo precedere da cileni e australiani, c’è spazio per parlare di vino italiano, per insegnare a bere italiano (ottima qualità a prezzi avvicinabili) in concorrenza con i grandi chateau francesi, perché la firma è firma e ai cinesi le firme piacciono e in parecchi se le possono anche permettere.

I cinesi sono un miliardo e trecento milioni. Circa il 9-10% conduce una vita molto agiata mentre i milionari che possono comprare etichette di lusso, soprattutto francesi, sono l’1%. Nell’immediato futuro non sarà più il brand esclusivo ad avere il centro della scena: i consumi dei grandi chateau sono in calo mentre il vino italiano è in fase di conquista di una classe medio-alta fatta da milioni e milioni di persone. Ci sono già ottime carte dei vini con forte presenza italiana, di varie zone, Etna compreso, e il vino al calice ha ampia diffusione, tant’è che mi hanno parlato a Shangai di prossime aperture di wine bar brandizzati. Mi sembra un bel passo avanti, fossi un produttore di vino italiano, ci penserei e subito, perché i cinesi corrono, mordono il freno. C’è tanto spazio per la comunicazione del vino in Cina, non stiamo con le mani in mano. Amici blogger, dico anche a voi.

Tengo famiglia. Il “vino da ristorante” come ultima novità ed estrema risorsa

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Tengo famiglia. Il “vino da ristorante” come ultima novità ed estrema risorsa

Un tempo le cantine sociali, nel corso di un’onorata carriera fra gli scaffali dei supermercati, inciampavano puntualmente nella produzione di una linea per la ristorazione: vini di fascia più alta (o forse gli stessi, con un abito diverso) e interdetti ai buyer della GDO. Da ultimo diverse aziende di qualità hanno mutuato la stessa definizione, ma con un’accezione un po’ più eccentrica: molti produttori che fino ad oggi, con listini da passamontagna, si sono smarcati dallo scaffale del supermercato per garantire al consumatore finale vini di eccellenza, ora fanno i conti col crollo verticale dei consumi al ristorante delle bottiglie di fascia medio-alta. “Houston, abbiamo un problema”.

Nemmeno lo sconto-merce risolve, quando una bottiglia esce di cantina a 25 euro+iva, triplicati in carta per arbitrio del ristoratore. Ma abbassare i listini andrebbe contro qualsiasi regola commerciale, quindi, con tutte quelle bottiglie sul groppone non c’è altra scelta che proporre al mercato (bramoso di cotanto colpo di genio) un vino da ristorazione. Qualcosa di simile all’epifania dei vini da mescita di una decina d’anni fa; facili, da sbicchierare e orientati soprattutto sui volumi più che sulla qualità. Le proposte da ristorazione, in buona sostanza, sono vini che costano meno. Ma se devo credere che il prezzo elevato abbia fin qui garantito una qualità indiscutibile, non posso che presumere, ora, un risultato più scadente, anche se chi lo propone non è la persona più indicata ad ammetterlo. “Vigne giovani, fa solo acciaio, è un vino più fresco, immediato e croccante (croccante?) Sentivamo la necessità di avvicinare un pubblico più giovane…” Insomma, pochi giri di parole: il vino da ristorazione è il vino “tengo famiglia”.

Eppure, per far girare le bottiglie, si potrebbero alleggerire da subito le carte dei vini dei ristoranti, riducendo drasticamente i folli ricarichi e l’assortimento elefantiaco che hanno incollato i vini in cantina per anni. Ultimamente molti ristoratori in sofferenza (col vino alla gola, diciamo) provano a vendere i cadaveri di cantina in blocco ai privati. Cercano di monetizzare quei maledetti chiodi, ma pretendono di applicare i ricarichi degli anni passati e questo, oggi, non ha alcun senso.

Il vino da ristorazione, quello che deve avere un costo sostenibile per girare sulle tavole degli italiani, esiste già, ce n’è fin troppo nei magazzini dei ristoranti. Basta decidere di svuotarli senza progetti fantafinanziari basati su business anacronistici, senza rincorrere il gusto di questo consumatore, stretto dalla crisi finanziaria. Teoricamente il vino non dovrebbe assecondare le contingenze, si spera passeggere, ma proporsi per come nasce e per quello che è, in modo naturale, verrebbe da dire.  Oppure possiamo decidere di suicidarci continuando ad assistere inermi alla diffusione del vino sfuso e della birra artigianale sulle tavole dei nostri apprezzati ristoranti.

[Immagine: Charming Inns]

5 imprescindibili regole per scegliere il vino sfuso. Ovvero: cose che non avrei mai pensato di scrivere in vita mia

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5 imprescindibili regole per scegliere il vino sfuso. Ovvero: cose che non avrei mai pensato di scrivere in vita mia

Fiumi di vino sfuso scorrono un po’ ovunque, dalla trattoria di Giggetto il fetecchione ai banconi di Eataly, fino alla cucina d’autore stellata. Se ne parla fin troppo ma, con questa crisi, la pressione fiscale e le amanti moldave incontentabili, sarà bene farci tutti un pensierino.

Avvicinare il pubblico al consumo di vino sfuso ha senso soprattutto in un periodo difficile come questo e mi auguro siano superati i tempi del bere poco per bere meglio: io infatti bevo più che posso ma occorre puntualizzare alcune regole, se ci piace il vino buono, perché la maggior parte dello sfuso che troviamo in giro non lo è.

1) La più importante. I produttori seri FANNO VINO e solo successivamente decidono cosa mettere in bottiglia e cos’altro vendere sfuso. Quindi, è ovvio che il meglio della selezione finisca in bottiglia. Tuttavia a qualcuno capita di sbagliare, come nel caso di Valentini, che sta per vendere sfuso un cerasuolo buonissimo che avrebbe potuto tranquillamente imbottigliare. Peggio per lui!

2) Il vino sfuso è una buona proposta per la trattoria, dove può essere servito a prezzi contenuti; la vendita nei ristoranti stellati, con ricarichi più alti rispetto alla carta delle bottiglie, ha senso soltanto dal punto di vista della saccoccia del ristoratore e nessun altro. Speculare sul prodotto quotidiano per eccellenza non è cosa buona, quindi occhio ai ristoratori birboni che comprano sfuso a 3,90 euro/l e lo rivendono a 40 sfruttando, a garanzia, il nome di un bravo produttore.

3) Scegliete con cura il produttore e l’azienda di riferimento perché la fiducia è più importante della mineralità e, addirittura, dei sentori di pittosporo. Attenzione perché col vino sfuso il rischio del miracolo inverso delle nozze di Cana è assai elevato, soprattutto in assenza di un bravo enologo come Gesù. Limitatevi alla scelta della tipologia, senza tante menate su strutture e concentrazioni, tanto il Barolo sfuso è vietato dal disciplinare. Occhio alle trappole e al rischio “mischioni” soprattutto nelle mescite dove se ne vedono di tutti i colori.

4) Conviene orientarsi sul produttore di una zona vicina a casa vostra. Se (fortunelli!) vivete a Vimercate, provate a dare un’occhiata all’Oltrepò Pavese prima di pensare al nero d’avola di Pachino. Se gli risparmiate quei 1500 km di distanza per il trasporto, il vino vi ringrazierà.

5) Acquistate il vino sfuso solo in relazione ai vostri consumi: se bevete poco non conviene, ma se avete molta sete, orientatevi su dolcetto, verdicchio, montepulciano d’Abruzzo, schiava, primitivo. Suggerisco anche il perricone; visto che non conviene metterlo in bottiglia, tanto vale incentivare il consumo sfuso di questo vitigno decisamente prescindibile.

Cari amici, gli anni passano, la crisi avanza e io sfornerò direttamente nipoti invece che figli. Se potete aiutarmi a precisare le indicazioni, una bevuta pagata delle mie a tutti: perché uno sfuso buono non si nega a nessuno.

[Foto: Alessandro Morichetti. Leggi anche: Vino sfuso | (Cerco) tutti i segreti dell’imbottigliamento perfetto]

Gli Champagne Rosé sono roba da uomini veri. Come me. 10 grandi etichette tra promossi e bocciati

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Gli Champagne Rosé sono roba da uomini veri. Come me. 10 grandi etichette tra promossi e bocciati

I maschi hanno una stupida forma di disagio nel bere vini rosati ma vi posso garantire che l’uomo vero beve anche Champagne Rosé, senza bisogno di indossare i collant e io me ne intendo, di collant. Ultimamente impazzisco per lo Champagne Rosé, quello buono per davvero che è difficile da trovare e comunque, in generale, preferisco i vini di facile beva. Superato un decennio abbondante di ricercate complessità stilistiche che hanno messo a dura prova i miei sensi, ora prediligo finezza e leggerezza, che mi permettono di coltivare la piacevole abitudine di bere come un alpino senza pudore nel produrre pessime rime come il signor Bonaventura.

Spesso gli Champagne Rosé presentano meno asperità rispetto ai Blanc vari, grazie all’aggiunta di vino rosso o alla maggior presenza di pinot nero, quindi sono più fini, sia sotto il profilo dell’eleganza che come impatto al palato della carbonica. A proposito di carbonica, ma il perlage non interessa più? Mi pare che negli ultimi tempi l’argomento riguardi sempre meno i palati dotti. Ed ecco perché la sora Cecioni, al bar latteria sotto casa, ha la pretesa vezzosa d’esser servita del suo “prosecchino” in un calice ampio. Sarò fuori dal coro ma, salvo problemi anatomici come avere uno sconveniente naso a banana, non ho alcun problema ad utilizzare la flûte per spumanti e Champagne sans année e non invecchiati, perché è il bicchiere migliore per controllare l’aspetto visivo del perlage, bolla per bolla.

Pretendo invece un calice ampio quando l’impatto olfattivo chiede il centro della scena, come nel caso di Champagne millesimati o molto vecchi. Il resto, per quanto mi riguarda, attiene più ad atteggiamenti modaioli e chi si atteggia, di regola, perde tempo con tutti quelli che gli vanno dietro con buona pace della sora Cecioni.

La produzione in Champagne sta superando la ricerca della concentrazione o l’eccessivo zuccheraggio, per ritrovare finezza ed eleganza e in questo momento alcuni Rosé battono al fotofinish i brut che ancora scalpitano nella ricerca di personalità. Ecco qualche etichetta che ho bevuto di recente, con belle sorprese e qualche brutta delusione.

Dom Perignon Rosé 2002. Uscito da poco sul mercato (e subito esaurito, infatti è già in consegna l’annata 2003) è decisamente fra i migliori che abbia provato. Ha i pregi indiscussi di un millesimo felice e le caratteristiche dei grandi rosé. Color salmone, al naso conquista subito con la rosa, i frutti rossi e una lieve tostatura derivata dal legno. La bocca sa di idrocarburi, è cremosa ma leggera e con la giusta acidità, equilibrata e molto fresca, con buccia d’arancia e pompelmo rosa. Indubbiamente giovane ma assai godibile.  Per la mia esperienza i rosé non raggiungono quasi mai questi livelli, se si fa eccezione per Dom Perignon Oenoteque Rosé, Krug e poco altro di altissimo rango.

Egly-Ouriet Brut Rosé grand cru. È un rosé d’assemblage che necessita di molta precisione perché gestire con misura il pinot nero di Ambonnay non è facile. Un po’ pesante stavolta, lo ricordavo rustico ma più accattivante e lieve. Il frutto c’è ed è scuro, arancia rossa e melograno con note speziate e un finale amarognolo. Il perlage, come sempre, non è fine ma ben gestito. Purtroppo, fatico a finire la bottiglia. Peccato, un tempo era fra i miei preferiti.

Comtes de Champagne Rosé 2002 Taittinger. Un grande classico che non provavo da tempo e mi ha soddisfatta. Naso floreale con accenti che scandiscono cassis, agrume, arancia rossa, mirtilli e ribes. Bocca cremosa, ricca senza alcuna pesantezza e persistente, perlage perfetto e acidità di grande e fresca beva. Decisamente lungo ed equilibrato senza il minimo cedimento dal centro bocca in poi. Vino con enorme potenziale di invecchiamento. Una piacevolissima rentrée, fra i miei assaggi, uno champagne aristocratico.

Beaufort Ambonnay Rosé grand cru. Per me questo produttore è ampiamente sopravvalutato anche sui brut millesimati. Zero freschezza sia al naso che in bocca e l’impatto al palato è dolce e tremendamente primario. Sa di fragola come la vodka Keglevich. Per dirla schietta con un iperbole,  m’è parso di aver a che fare con un Brachetto d’Aqui, però maturo e decisamente sgraziato.

Il Rosé di Billecart-Salmon è il solito grande classico molto scolastico, non costa troppo, ma mi annoia a morte per assenza di personalità. Il naso sa di rosa e lampone, in bocca compare la fragola con una nota dolce che non mi soddisfa. Anche la prestigiosa versione Cuvée Elisabeth 2000, con molta più materia ben argomentata, alla fine non appaga. In compenso ti svena.

Piollot Père & Fils, Rosé de saignée, brut, 100% pinot noir. A voi piace lo Champagne che puzza di formaggio? A me no. A parte questa fastidiosa caratteristica, riscontrata anche in un secondo assaggio a una settimana di distanza (cambiando bottiglia, ovviamente), Piollot mi è piaciuto. Il colore è intenso, molto vivace, ha note scure al naso, con tamarindo, mirto e spezie. In bocca complesso ma agile ed equilibrato, ampio e dinamico, ha slancio. Perlage potente, deciso, non proprio sottile e raffinato, ma mi interessa. Sul finale non è aggressivo, lascia dolcezza con sapidità e, pur giocando sulla nota seria e scura è, nel contempo, piacevole e mai chiuso su se stesso. Riesce ad essere leggero benchè  estremamente complesso. Inoltre costa poco, sotto i cinquanta euro e può accompagnare dignitosamente tutta la cena.

Jérôme Prévost La Closerie Fac-Simile extra brut rosé. Il colore è abbastanza tenue, il naso e la bocca hanno l’impronta della casa, come sempre giocata sull’acidità, quindi molto verticale. Perlage fine elegantissimo. Decisamente sapido e fresco è perfetto come aperitivo. Il frutto è sottile, quasi acerbo, con nitidi sentori di agrume, soprattutto arancia rossa. La bocca è definita, netta, un po’ stretta ma in chiusura richiama il sorso successivo. Mi è piaciuto molto.

Larmandier-Bernier, Rosé Extra Brut premier cru, Rosé de saignée (100% pinot nero), Decisamente non è più quello di un tempo. Alleggerito nei toni rispetto a come lo ricordavo, sa di lampone e rabarbaro ed è retto da una buona acidità ma complessivamente delude. Ha una parvenza sciocca e un po’ ammiccante ma non mi è chiaro nei confronti di chi.

Veuve Cliquot Ponsardin, La Grande Dame 2004 Rosé brut. Nel bicchiere, più che una grande dama, ho trovato una gran bella gnocca che, con aggraziata ma scattante freschezza, rivela grinta materica e minerale, pienezza e complessità in un crescendo che è quasi un galoppo irrefrenabile. Questo è uno dei migliori rosé che abbia provato ultimamente.

[Foto: onlyfreewallpaper.com]

Se potessi ordinare un vino per la cena della vita, quale sceglieresti? Perché noi l’abbiamo fatto

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Se potessi ordinare un vino per la cena della vita, quale sceglieresti? Perché noi l’abbiamo fatto

Se potessi ordinare un vino per la cena della tua vita, senza limite di prezzo e reperibilità, quale sceglieresti? Bella domanda, sarebbe un sogno. È successo a me e a Maurizio Paparello, sommelier di Roscioli a Roma, fra i più grandi palati in circolazione. Per reperire le bottiglie prescelte il nostro ospite si è affidato a Gabriele Speziale, che non definisco restaurant manager perché è un maître sommelier della vecchia scuola, quella che preferisco e, purtroppo, in estinzione. Speziale lavora a Lugano al ristorante Principe Leopoldo - ottimo locale che non tradisce le promesse della buona cultura gastronomica ticinese tradizionalmente nota fin dal Medioevo – dove il sogno mio e di Maurizio si è avverato.

Ho detto cena della vita, non “vino quotidiano”, buono, pulito e giusto, perché il semplice giochino organizzato dal nostro amico e misterioso ospite era: scegliamo tre vini, i migliori per i nostri palati, e beviamoli. Maurizio ed io non abbiamo battuto ciglio; ricordo solo che il mio pensiero si è rivolto dritto a un grande filosofo contemporaneo di cui ora mi sfuggono opere e omissioni (probabilmente perché il numero di opere coincideva con quello delle omissioni) il quale, avveduto e saggio affermava: “piatto ricco, mi ci ficco!”.

Ed ecco per quali etichette abbiamo scomodato da Roma le regali chiappe, ben consci che la barriera di accesso a certi ristoranti, e ai vini prescelti, non sia per tutti.

Henri Jayer, Vosne-Romanée  Cros Parantoux 1978, magnum.
Tappo. Sì, avete letto bene, ho detto tappo. Attenzione, quella bottiglia, che costa una cifra a diversi zeri, è insostituibile, introvabile, perché Jayer è morto nel 2006 e suo nipote Emmanuel Rouget ne ricorda ben poco la classe. Non so se quel brav’uomo di Giorgio Pinchiorri (che capì e acquistò Jayer quando nessuno se lo filava) ne conservi un esemplare nella sua cantina, mi informerò.

Ora, la domanda è: come ci si comporta davanti a una boccia del genere che sa di tappo? O ti suicidi, o la prendi con filosofia; più vicino a Seneca che a Platone, però! Insomma, dopo quel tappo, un tuffo nel vuoto, a cufaniello, mirando il lago di Lugano, ci stava tutto.

Gabriele Speziale ha reagito con composto dolore, d’altra parte ne ha viste di tutti i colori in una lunga carriera iniziata quand’era ancora ragazzino imbarcato sulla Costa Line come “piccolo di camera”, livello più basso, una sorta di commis dèbarasseur. Sono passati parecchi anni e svariate bottiglie da allora, ma Gabriele ha ancora una passione così potente che confessa di non aver dormito per l’emozione la sera precedente. Che bello l’amore che non fa dormire!

Chateau Mouton Rothschild 1959, magnum
Non era ancora premier cru ai tempi, lo divenne una quindicina d’anni dopo. Un vino con la dolcezza dei grandi Porto, per dirla con quel birichino di Robert Parker. Grande struttura tannica con frutto vivo, prugna ma anche cassis, leggermente erbaceo con un’acidità ad oggi ineccepibile. Grande annata la ’59, anche se Mouton-Rothshild, per come si comporta nell’invecchiamento, pare, talvolta, non averne bisogno.

Domaine Leflaive, Montrachet Grand Cru 1992
Questa bottiglia rappresenta la perfezione. Non ha sentori evolutivi e la bocca è piena, armonica, formata. Vino che definirei pastoso ma con ha un’eleganza unica. Molto più vicino a Romanée-Conti che a Coche-Dury, se vogliamo fare accostamenti e, comunque sia, i vini bianchi per piacermi devono somigliare a questo Montrachet 1992, annata particolarmente felice per una  bottiglia che ci ha regalato la vera, grande gioia della giornata.

Champagne Bollinger RD 1996, magnum
Sicuramente ancora giovane, da bere ora consiglierei il formato da 0,75, decisamente più pronto. Grandissima annata in Champagne, si sente, e poi la magnum fa la differenza. Naso ampio, grandissimo carattere. Ottima acidità, in bocca è cremoso e ricco di agrume, cedro e spezie, con un perlage impeccabile. Insomma questo vino è un capolavoro anche se si deve ancora accomodare. Qui lo dico e qui lo nego, per me batte anche Oenoteque dello stesso millesimo.

Irrinunciabile conclave fumante sul finale a base di Cohiba Behike e una bottiglia di Florio, Marsala Superiore Riserva 1870 che, purtroppo, non s’è rivelata una chiusura memorabile, o forse avevamo solo la pancia piena, chi lo sa! Nel dubbio abbiamo aperto una magnum di Dom Perignon Oenoteque Rosé 1993, che qui lo dico e non lo nego: è proprio una meraviglia, porco tappo!


I 7 vezzi da degustazione più disgustosi. Finalissima: “La narice alternata” vs “Lo sputo del lama”

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I 7 vezzi da degustazione più disgustosi. Finalissima: “La narice alternata” vs “Lo sputo del lama”

Se, come dice Michael Douglas, il sesso orale può causare il cancro, quale grave patologia si anniderà dietro a una leccata di bicchiere in degustazione? Non bastavano gargarismi, sciacqui, risucchi e sputazzi a caratterizzare il corredo gestuale durante gli assaggi: lingent vitrum è l’ultimo disgustoso vezzo che si diffonde fra gli enoappassionati e dilaga come la peste bubbonica.
Ma la galleria dei orrori è piuttosto ricca. Trattenete i conati.

Lingent vitrum
Il più recente in ordine di apparizione. Spopola in degustazione nell’aristocrazia dei palati dotti e funziona così: la goccia di vino che oltrepassa il bordo del bicchiere viene bloccata da un colpo fulmineo che slurp, raccatta tutto in un batter d’occhio. Una lingua di ramarro, sporca di tannini e appiccicosa, colpisce come una saetta e non perdona: fulmina sul vetro quella maledetta goccia e le sostituisce una patina di saliva vischiosa, rigorosamente home made. Fra i virtuosi del colpo di lingua salvagoccia c’è anche chi ha sviluppato uno stile più lento con svirgolata finale e chiusura artistica alla francese, ma quanto a disgusto anche questa versione, apparentemente più stilosa, non teme confronti. Leccare la goccia sul bicchiere è un orrendo vezzo tipicamente maschile; noi signore abbiamo il buon gusto di farlo solo alla Pergola e a lume di candela.

Il frullatone (the wine shake)
Ehi degustatore, ma che succede, maledizione, perché tutti ti resistono? Le donne non te la danno, il vino non si concede… Non sarà per caso colpa tua? Ci pensi ma non ti perdi d’animo e trovi la soluzione. Vino, tu hai i numeri e non li dimostri, hai talento ma non ti applichi e allora sai che faccio? Copro il bicchiere con la mano, ti tappo, ti scuoto e poi ti olfo. Cacchio come sei dinamico adesso, c’è un capodanno in questo bicchiere! Senti che aromi che sprigioni con la potenza di uno spray nasale. Adesso sì che ti apprezzo fino in fondo.
Il frullatone è una tecnica praticata da numerosi degustatori professionisti, destinata ad attecchire per via delle forti pressioni della lobby dei cantinieri, da sempre sostenitori delle innegabili virtù dinamizzanti della shakerata nel bicchiere.

La sciusciatella ‘e naso
Questa pratica di solida tradizione, pur se circoscritta all’esame olfattivo, è sufficientemente schifosa da rientrare a pieno titolo in questa horror list. Il vino che non si concede subito all’olfatto va rispettato da un lato ma stimolato dall’altro, non è che abbiamo tutto ‘sto tempo da perdere. Ecco allora che il degustatore professionista ci soffia dentro col naso per accelerare il processo e fare uscire il meglio dal bicchiere. Solo che talvolta esce il peggio dal suo naso. In questo caso, per evitare che il vicino se ne accorga, il bravo wine taster tracannerà in un colpo solo l’intero contenuto del bicchiere, ponendo rimedio a quel brutto pasticcio ed evitando, nel contempo, il disgusto collettivo degli astanti.

La narice alternata (o snasata selettiva)
Maledizione, ma perché questo vino un po’ ossidato alla narice sinistra è decisamente ridotto per quella di destra? Se sniffo merda di pollo a destra, come può esserci glutammato a sinistra? Olfo con una narice e poi subito con l’altra. Di nuovo con la prima e poi ancora con la seconda e così via per alcuni minuti, senza fretta, a voler cogliere le differenze fra le percezioni opposte dei due canali. Sentimenti contrastanti, talvolta, non facili da conciliare, che vanno capiti e interpretati secondo la personale formazione con attenzione epistemologica, direi. E poi chi ci dice che i mancini non sentano meglio con la narice sinistra?

Lo strippaggio
È una pratica di assaggio assai diffusa, utilizzata senza pruderie anche dalle signore e consiste nel risucchio del vino che si ossigena mentre scorre nella cavità orale. Intervistati dalla sottoscritta, alcuni sostenitori di questa raffinata disciplina hanno argomentato il loro bisogno di strippare con la necessità di immettere ossigeno che, in pochi attimi, riequilibrerebbe possibili riduzioni. Quindi occhio allo strippaggio di vini vecchi perché si potrebbero ossidare in bocca durante l’assaggio, viziando ingiustamente, nell’ordine, appunti di degustazione e punteggio finale.

Gli sciacqui
La sala di degustazione è l’unico luogo dove c’è ancora qualcuno che si sciacqua la bocca prima di parlare di vino. E lo fa col vino stesso. Dopo adeguata olfazione, viene data una boccata piuttosto importante con la quale ci si sciacqua la cavità orale fino quasi al gargarismo, come se il vino fosse Listerine.
Ritengo che il magistero dello sciacquo nasca dall’intenzione di rendere omogenea la struttura del vino in bocca, ma non escludo possa avere a che fare con un fastidioso pezzo d’arrosto incastrato fra i denti. Prevedo, pertanto, che la diffusione di questa dottrina sarà inversamente proporzionale a quella del filo interdentale.

Lo sputo del lama
Altro esercizio di stile che attiene più al vezzo e all’effetto scenico che ad altro. Nasce nel nord Europa ma sta prendendo piede un po’ ovunque e si parla addirittura di inserire questa disciplina alle prossime Olimpiadi a Rio de Janeiro. Le qualità indispensabili per essere performanti in questa tecnica, che consiste nello sputare il vino a mo’ di fontanella in un secchiello posto almeno ad un metro di distanza, centrandolo in pieno e senza schizzare il pubblico in sala, sono aver visto qualche Lama da piccoli e almeno una decina di tuffi da 10/10 di Tania Cagnotto.
È parente della gara a chi sputa più lontano che è un’evoluzione della fase orale di Sigmund Freud. Il tema fu approfondito anche da Jean Piaget nei suoi fondamentali studi sull’età evolutiva ma, soprattutto, sugli atteggiamenti che ne compromettono gravemente il normale sviluppo.

[Immagine: Wine Pleasures]

La mia prima volta. Ovvero: l’etichetta che m’ha fatto diventare quello che sono/7

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La mia prima volta. Ovvero: l’etichetta che m’ha fatto diventare quello che sono/7

Vivevo a Bologna, avevo 16 anni e una spiccata inclinazione per gozzoviglie e bagordi che mi rifiutavo di controllare con regimi alimentari francescani e altre menate del genere. E infatti l’inclinazione si è cronicizzata.

Chiodo in vera pelle, scarpe del dr. Martens e trucco dark di ordinanza, fresca di parrucchiere Orea Malià, che se non tagliavi i capelli da loro eri out senza rimedio e via, imbucata a scrocco al concerto dei Gaznevada grazie a una parentela stretta col chitarrista. Colpo di fortuna, mi accorsi che in prima fila c’era anche lui, quel mentecatto della quinta B che ricambiava il mio amore di adolescente con fantasie da Gabriel Pontello e adesso è calvo, obeso e vive a Varese. Facebook non ha pietà.

Era la Festa de l’Unità, quella nazionale e decine di zdore sacrificavano al partito il sudore della propria fronte e tante uova tirate a sfoglia per i tortellini alla panna e le tagliatelle al ragù, i miei piatti preferiti al mondo. Fu proprio lì che mi accorsi di quanto fosse tremendo quel sangiovese sfuso e presi, pertanto, alcune solenni decisioni: la mia terza C era meglio della sua quinta B e vado fiera di averlo capito prima dell’invenzione di Victoria’s Secret, i Gaznevada e le feste di piazza ce l’avrebbero fatta benissimo anche senza di me e i tempi erano maturi per cominciare a far sul serio col vino.

Fu una buona bottiglia di Taurasi riserva di Mastroberardino a mettermi a mio agio con la sete. Solo la prima di una lunga serie.

[La prima puntata, la secondala terzala quarta, la quinta e la sesta].

Medicina oggi. Curare il mal di testa bevendo La Tache 1999 e Chevalier-Montrachet 1992 Leflaive

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Medicina oggi. Curare il mal di testa bevendo La Tache 1999 e Chevalier-Montrachet 1992 Leflaive

Sapete che cosa significa avere un feroce mal di testa? Soffro di emicrania da quando ero piccola e, dopo aver provato di tutto, dalle più recenti molecole farmacologiche ai tradizionali rimedi della nonna, ho deciso di seguire le esortazioni di mio nonno che beveva come un alpino e suggeriva di fare come lui. Sono contraria a contrastare la proverbiale saggezza dei nonni.

E così, con un forte mal di capa, sono andata alla Pergola del Rome Cavalieri Hilton a tirare il collo a un paio di bottiglie i cui principii attivi, in somministrazione sub linguale, hanno svolto un portentoso effetto analgesico fin da subito. Due bocce Act, diciamo, un po’ come il Moment ma decisamente più buone.

Romanée-Conti, La Tache 1999. Annata che non mi convince e vino con struttura ma molto teso, giocato più sui nervi che sul frutto. In bocca ti tiene sulle spine, non si concede facilmente benché decisamente vinoso. Ho portato a casa il bicchiere avanzato nella bottiglia per riassaggiarlo dopo qualche ora ma il vino perseverava egoista, senza concedere la piacevolezza aristocratica del grande pinot nero di Borgogna.

Non me la dai la prima volta e pazienza. Non me la dai la seconda e ciccia lo stesso perché mi piaci un casino e la voglio così tanto che penso di farcela ad aspettare un altro po’. Però, per piacere, dimmelo se hai intenzione di non darmela per sempre così oriento i ritagli d’amor proprio che mi avanzano su una pratica meno contorta, porca paletta!

La Tache ’99 è un vino con un forte potenziale di invecchiamento, sulla carta, eppure, a distanza di tre ore dall’apertura, mi è giunta al naso un’inconfondibile nota di glutammato, una sfumatura ossidativa che non è, di certo, indicatore di gioventù.

Su La Tache 2004, di cui scrissi leggermente insoddisfatta tempo fa, sarei disposta a rivedere la mia posizione perché quel vino era ancora inespresso ma di certo non sfiorato da sentori di ossidazione come questo ’99. Per carità, stiamo parlando di un monumento, però La Tache, salvo qualche vecchio millesimo gioioso, non è il mio preferito fra i grandi Borgogna e siccome i bravi produttori si vedono soprattutto nelle annate minori, dico che non amo bere La Tache, che costa una tombola, se l’annata non è super blasonata.

La seconda bottiglia prescritta dal mio medico curante che si chiama Marco Reitano e non è convenzionato Asl, né deducibile dal reddito ma sa curare per davvero, è stata Chevalier-Montrachet 1992 del Domaine Leflaive. Annata felicissima, si sa, ma il vino non è partito con un grande profilo olfattivo però ha svelato una bocca ricca, grassa, con ottima acidità, quindi piena, armonica e lunga. Sul finale tiene finché può e scala la marcia in corsa al momento giusto. Frutti esotici e agrumi, burro di arachidi e spezie. Minerale e salino dalla coda interminabile.

Sto parlando di una bottiglia fra le mie preferite al mondo che incede con passo deciso come tutti i grandi bianchi dello stesso millesimo in Borgogna. Una bevuta felice che ho gustato fino all’ultima goccia, cercando di curare il mio animo avvilito da quel brutto attacco di emicrania che infatti è passato. Un po’ di cerchio alla testa il giorno dopo non lo considero un insuccesso della terapia ma condizione nella norma per noi habitué delle grandi bevute. E comunque, per fugare ogni dubbio, basta ripetere il trattamento, che non ha alcuna controindicazione se non in caso di conto rosso in banca.

Dom Perignon Rosé Vintage 2003. La prima delusione d’amore non si scorda mai

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Dom Perignon Rosé Vintage 2003. La prima delusione d’amore non si scorda mai

Siamo sinceri: alla fine preferiamo un complimento fasullo a una critica verosimile. Ho parlato spesso di bottiglie fantastiche di Dom Perignon Vintage, rosé e Oenoteque brut e rosé, perché quei vini mi sono piaciuti, non per altro. Eppure prima o poi doveva capitare la bottiglia della delusione, quella memorabile e utile a ricordare che nulla è certo, tranne le tasse.

È successo a Milano da Trussardi alla Scala, un locale che mi piace per vari aspetti oltre alla cucina di Luigi Taglienti, al piano superiore, già riconosciuta dalla critica ufficiale. Il posto è gestito alla perfezione da Luca Cinacchi e ha una varietà di offerte: potete passare in modo veloce ed informale a mangiare un piatto al banco con un’ampia scelta di vini oppure scegliere, come me, un ottimo cocktail preparato da Tommaso; il contesto è piacevole dal punto di vista estetico, dell’accoglienza e per le attenzioni rivolte ai clienti. Parlo proprio da cliente, altro non sono. Solo che a me non piace Trip Advisor.

L’incontro era di lavoro, dovevo parlare con un collezionista di vini che voleva provare con me, Luca Cinacchi e Marco Curcio, sommelier del ristorante, due annate di Dom Perignon rosé: 2003 e 1998, quest’ultima in versione magnum. Io avevo aperto un ’96 dello stesso champagne il giorno prima da Roscioli, a Roma, ed ero quindi in possesso di un confronto recente.

L’ultima novità che segnalo da Trussardi è un ampio fumoir, dotato di un impianto di aspirazione così prodigioso che mi è sparita la forfora sulla giacca. Si può bere, parlare, mangiare, fumando sigari eccellenti. Ed è esattamente quello che abbiamo fatto noi, con Habana Montecristo “A”.

Dom Perignon Rosé 2003 è figlio di un’annata calda. Uve raccolte con quasi 40 gradi, in condizioni dove solo Geoffroy, lo chef de cave, poteva ricavare qualcosa di buono, cosa che gli è riuscita degnamente col brut ma un po’ meno con questo rosé. L’acidità non è sufficiente a sostenere un frutto così carico, maturo, che sa direttamente di Kir Royal, di cassis de Dijon, senza passare dal ribes, che è evidente e piacevole nel ’96 (grandioso) e, ancor di più, nel ’98, ornati entrambi da spezie, agrumi e bocca assai nobile per equilibrio. Il perlage è come sempre inattaccabile. Nel complesso, non m’è parso di avere a che fare con un vino pesante ma con una bevuta eccessivamente morbida, almeno per il mio gusto, sul cui futuro non scommetterei.

Dom Perignon Rosé Vintage 2003 non mi ha soddisfatta, sono sincera e prima o poi doveva capitare. Non è così grave che le certezze possano incrinarsi, e sono convinta che nel vino, come in amore, a niente serva il sacrificio di innamorarsi dei difetti dell’altro: basterebbe imparare ad accettarli.

5 regole definitive che ogni donna deve seguire (prima di bere come un ussaro)

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5 regole definitive che ogni donna deve seguire (prima di bere come un ussaro)

Ho appena finito di leggere un articolo talmente cretino che fatico a credere di non averlo scritto io. Secondo l’autrice, contro la quale intendo rivalermi per plagio di quoziente intellettivo scarso, le donne assumerebbero alcol per motivazioni meramente sociali. E siccome l’alcol è una brutta bestia, rischiano l’alcolismo solo per sganciare un freno a mano tirato.

La solita storia: il maschio turbo beve vino e distillati di pregio per interesse e autentica passione, mentre noi femmine dobbiamo sistemare una questione di inadeguatezza tra un ragù da rimestare che sennò s’attacca alla pignatta, una montagna di panni da stirare e una tinta fai da te che delude la promessa di brillanti nuance color zafferano di Navelli.

Beviamo per aprirci al prossimo, a quanto pare, per conoscere e apparire brillanti, per vincere il pudore di confidare alle amiche che nostro marito non ci sfiora da anni o per trovare una scusa quando la diamo via la prima sera che non sta bene ed è pure demodé.

Tutte boiate! I maschi e le femmine bevono per ragioni assolutamente identiche, nonché per il sano piacere di bere. Se proprio vi dovesse capitare di aver alzato un po’ il gomito vi basterà seguire queste 5 semplici regolette. Testate sul campo.

1. Reggete l’alcol?
È sufficiente una birra Corona a farvi vedere gli elefantini rosa? Cambiate ramo, l’alcol non fa per voi. All’estremo opposto, se dopo mezza bottiglia di vodka siete in grado di ripetere la cantilena della trasferta a Trento dei trentatrè trentini trotterellanti (sai che impresa, stavano già in zona!) offritevi a uno specialista in materie plastiche che, di certo, vorrà capire di che materiale è fatto il vostro fegato. L’organo potrebbe tornar buono anche per bonificare il golfo del Messico dopo l’esplosione di una piattaforma petrolifera e le cause sono riconducibili, come sempre, alla vostra infanzia e a quei maledetti Boeri incartati di rosso. Si vinceva facile, si vinceva troppo, a distanza di anni lo possiamo dire. Con un solo Boero gravido di alcol puro se ne vincevano cinque e a multipli di cinque si fa presto a fare i conti e a confrontare i risultati con quelli delle transaminasi; un pessimo imprinting per fegato e psiche, ecco perchè il governo li ha fatti sparire.

2. Socialità
Se arrossite solo a udire la parola nudo, smettete subito di leggere questo post perché aveva ragione la madre badessa nel raccomandarvi di prendere i voti con la massima urgenza. L’alcol abbatte le barriere e soprattutto amplifica le caratteristiche della nostra personalità. Quindi se dopo un bicchiere di vino la offrite a cani e porci è colpa dell’alcol ma eravate un po’ zoccole anche prima.
Prevedete inoltre che i toni, da ebbri, si possano alzare ed è un attimo che una carezza diventi una pacca, un complimento si trasformi in doppio senso e una semplice divergenza di opinioni declini in una minaccia ridicola di querela se non addirittura in un cazzotto sul terzo occhio.

3. Sesso
Fate in modo che lui beva meno di voi visto che deve guidare e, una volta giunti a casa, fare qualcosa per il vostro benessere. Ricordate inoltre che l’alcol, oltre a renderci più disponibili, migliora la percezione estetica del prossimo ma è una condizione temporanea e reversibile proprio come la sbornia; quindi occhio perché un conto è avere scheletri nell’armadio, altro è trovarseli dentro al letto.

4. Elettronica di consumo
Dopo una cert’ora e un elevato numero di bicchieri, se non avete raccattato niente di meglio per chiudere la serata, spegnete smartphone e tablet e contate fino a cento prima di telefonare, chattare, twittare e via dicendo. Nel dubbio ripetete come esercizio di verifica la storiella dei 33 trentini. Siamo sempre tutti connessi e può capitare che la rete vi imprigioni come sardine, un vero e proprio boomerang. Da ebbri si scrive male, si eccede nelle dichiarazioni, si cade nel buonismo strappacore, si sparano minchiate e progetti del grappino che con un semplice click possono raggiungere la persona sbagliata e una volta che la frittata è fatta c’è poco da recuperare: l’elettronica di consumo ci saluta col gesto dell’ombrello e lascia a noi l’intera gatta da pelare.

5. Effetti collaterali
Mentine in borsetta pronte a intervenire sull’alito da nonno trinchetto. La caramella Fisherman, in barba al nome che tutto evoca tranne l’accostamento a gradite aulenze, è decisamente la più potente ed efficace, soprattutto se il vostro interlocutore aveva già in animo di schiarire i capelli. Il cocktail parasbronza più diffuso prima di coricarsi è un mischione di bustine analgesiche/antinfiammatorie e gastroprotettori sciolti insieme in mezza bottiglia d’acqua, da consumare un po’ per volta durante la notte quando vi svegliate con una palude in bocca e il dubbio legittimo di aver bevuto le valli di Comacchio. In alternativa, la mattina seguente, prima di chiamare una squadra bonifiche per sistemare quella brutta faccenda della melma in bocca, preparatevi un Bloody Mary (daje!): pare faccia miracoli in casi di over drinking.

[Fonte: HuffPost Women]

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