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Channel: Cristiana Lauro – Intravino
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Le migliori 99 Maison di Champagne 2014/2015: la prima recensione non si scorda mai

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Le migliori 99 Maison di Champagne 2014/2015: la prima recensione non si scorda mai

C’è qualcuno che non crede più alle guide, qualcuno che le ha firmate per anni e ora ha smesso, qualcun altro che continua a produrle e dà lavoro a tante persone e poi c’è chi sta per farne una nuova e sarà, ovviamente, la più bella di tutte. C’è anche chi è morto e dice che sono morti tutti gli altri. È sempre e quasi soltanto una questione di punti di vista.

Ho appena finito di leggere Le migliori 99 Maison di Champagne edizione 2014-2015 che è una lettura più che una guida, una serie di racconti scritti con stile e conoscenza. A tratti è un avvincente diario di viaggio (di viaggi!), una lettura che può guidare. Partecipai come auditrice a una seduta di assaggio, tempo fa: il panel di degustazione, pur essendo affiatato, è nient’affatto impenetrabile. Ho testato personalmente la trasparenza rigorosa, implacabile e al di sopra di ogni malevolo contagio. È una guida indipendente, che non cede alle blandizie delle grandi maison, le quali tutto possono, e che sceglie, fin dalla sua prima uscita, di non attribuire voti; semplicemente racconta e finisce per farlo molto bene.

Dove e come si produce lo Champagne, la differenza dei vari terroir e vitigni, la storia emozionante delle principali maison e vigneron e poi, ancora, gli abbinamenti gastronomici, come scegliere e conservare una bottiglia, il glossario coi locali dove trovarla (ristoranti, wine bar, enoteche). Il tutto raccontato con uno stile piacevole, multiculturale, non di rado divertito e divertente, anche un po’ dissacrante e decisamente controcorrente ma non per vanità di sentirsi esclusivi. Contenuto e forma sono cordialmente inclusivi, in barba alle nicchie che non parlano agli altri. Controcorrente perché non si conforma ai flussi delle mode, perché stabilisce un percorso suo, autonomo, indipendente e laico.

Le migliori 99 maison di Champagne è un’ottima lettura sia per i neofiti che per i veterani, mi ha messo a mio agio, racconta di Champagne e uomini in maniera laica e questo mi basta, anche se non sempre parla di vini che berrei. Però mi piace come ne parla, con sincera passione e voglia di condividere, non certo di confondersi in mezzo a logiche mercantili o inservibili polemiche.

Piccola autocritica: alla presentazione romana del libro, il nostro infiltrato col cilindro alla Willi Wonka avrebbe fatto meglio a usare una barba finta per non farsi riconoscere. Esibizionismo batte arguzia 6-0 6-0.

Le migliori 99 Maison di Champagne Ed. 2014/2015 
Luca Burei e Alfonso Isinelli
pp. 276, 16,50 euro

[Foto: Andrea Federici]


La Cina non è poi così vicina: scambiano ancora il Prosecco per Champagne

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La Cina non è poi così vicina: scambiano ancora il Prosecco per Champagne

Il futuro è in Oriente e non solo in Cina, lo hanno capito tutti da un pezzo, anche il comparto vinicolo internazionale. Personalmente, senza tutto quell’inquinamento nell’aria, non avrei grossi problemi a trasferirmi a Pechino o Shanghai, anche se vivere con la mascherina senza essere Zorro su questo pianeta un senso non ce l’ha. Casomai lo farei con il mio adorato cane al seguito, la piccola Carmela, così sfatiamo la maldicenza che i cagnolini da quelle parti finiscano in padella. Non è vero! Me l’hanno detto dei cinesi, gente perbene, hanno un ristorante.

Per ora preferisco muovermi da pendolare, che non è molto comodo ma mi dà il tempo di fare un sacco di cose mentre viaggio. Ad esempio stavolta ho iniziato e finito il Capitale di Marx e nelle ultime due ore di volo rimaste, ho potuto riflettere su alcuni contrasti fra il pensiero marxista e l’indubitabile rilettura operata dal compagno Mao. Poi ho iniziato un libro di Adua Villa ma siamo atterrati e ho dovuto mollarlo alla sesta riga. Al ritorno da Pechino la tratta è ancora più lunga e ho avuto tempo per ricomporre i 35 cubi di Rubik che avevo in valigia; un po’ ingombranti, effettivamente, la prossima volta ne porto solo uno così rifaccio e disfo sempre quello per 35 volte. Poi ho ripreso in mano il libro di Adua Villa ma siamo atterrati e ho dovuto mollarlo alla settima riga. Che peccato!

Ho girato parecchio anche stavolta fra incontri istituzionali e scambi di idee sul mercato del vino. Inoltre ho preso parte a un bellissimo gala dinner organizzato da James Suckling, che mi chiedevo che fine avesse fatto dopo quella volta a casa di Sting dove ci regalò momenti indimenticabili. Suckling parla di vino italiano a Hong Kong e Shanghai e si rivolge prevalentemente a un pubblico high-level, piuttosto numeroso da quelle parti, bontà loro. La location del gala dinner, Jing An Shangri-La, West Shanghai, era da mille e una notte: si è mangiato abbastanza bene ed é stata un’occasione per incontrare amici produttori e gran parte degli importatori cinesi accorsi numerosi malgrado l’elevato costo per la partecipazione. Io ero a scrocco. I vini presenti sono stati molto apprezzati. Pensate che durante l’aperitivo più di uno ha creduto di tracannare una flûte di champagne bevendo a secchiate il Prosecco di Carpené Malvolti, tanto per riferirvi un modello di crescita qualitativa dei nostri prodotti.

In Cina per vendere vino sono sbarcati tutti, dopo i francesi; cileni, australiani, neozelandesi, spagnoli e noi ci siamo mossi tardi a parte qualche eccezione lungimirante come quel genio di Angelo Gaja, che in terza elementare festeggiò una sfilza di dieci e lode in pagella proprio a Shanghai, offrendo ai maggiorenni presenti al rinfresco, fiumi di Barbaresco allora sconosciuto da quelle parti. I Gaja conoscono la Cina poco meno delle Langhe e quasi come gli Stati Uniti.

La quota di mercato rappresentata dai vini italiani qui deve crescere al più presto perché il consumo di vino è in forte incremento ma altre aree produttive si stanno muovendo più rapidamente di noi. Non abbiamo saputo fare sistema, non serve ripeterlo, ma dobbiamo darci una mossa. Qui da noi organizziamo una quantità di incontri che non ha precedenti per parlare del trend dei vini naturali, artigianali, liberi o chiamateli come volete, e infatti stanno crescendo sul mercato italiano in maniera importante, come diretta conseguenza di un lavoro di comunicazione di squadra ben fatto. Ma parliamo di tanti piccoli produttori sapendo che il grosso della produzione vinicola interna, che non è ovviamente rappresentato da questi ultimi, dobbiamo rivolgerlo all’estero, ora e chissà per quanti anni a venire.

In Oriente, in generale, il palato che si va formando è basato su un gusto diverso dal quello nostro attuale, molto più simile a ciò che ricordo da noi fino a pochi anni fa. Non interessa il concetto di vitigno autoctono e vinificato in purezza, ad esempio, quindi un blend di cabernet sauvignon e merlot non è Belzebù, anzi, Bordeaux style funziona parecchio. Sono mercati diversi e vanno affrontati con altre regole e visione interna, cercando di interpretare la ricettività del pubblico per farla crescere. È chiaro che per fare questo sia necessario recarsi in Cina, tornarci spesso, muoversi e non da soli, per meglio affrontare i costi elevati, conoscere, parlare, osservare e cercare di capire, altrimenti si resta schiacchiati dai preconcetti e dalle interpretazioni personali basate su conoscenze congetturali, per tanto fallibili, più che su sostanza concreta.

Italia e Cina sono paesi molto diversi e noi siamo un popolo molto diverso dai cinesi per storia, cultura e tradizioni. E cosa apre le nostre menti se non aver compreso e assimilato l’importanza del relativismo culturale e di tutto ciò che ne deriva in ogni campo? Che sia commercio, cultura, divulgazione, formazione, rapporti interpersonali, metteteci quello che volete, senza limiti. E non trovate in tutto questo grossi stimoli per crescere culturalmente? Sarà che somigliare a qualcun altro mi annoia a morte. Sarà che sono naturalmente attratta da persone assai diverse da me.

[Foto: Donatella Cinelli Colombini]

Con Valentini mi sono emozionata 31 volte. Partendo da molto lontano: Montepulciano 1880, 1890, 1896

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Con Valentini mi sono emozionata 31 volte. Partendo da molto lontano: Montepulciano 1880, 1890, 1896

La verticale di Valentini di ieri a Roma passerà agli annali come storica per antonomasia: 31 annate a partire dal 1880. Francesco Paolo Valentini ha voluto condividere alcune bottiglie uniche della cantina che fu di Gaetano Valentini, suo trisavolo, un uomo dedito tanto alla campagna quanto a studio, poesia e riflessione. Vecchi bottiglioni dell’epoca da 15 litri sigillati a olio e ceralacca che papà Edoardo, intorno agli anni ’50, decise di aprire e imbottigliare. Non ce n’è più, anche perché durante il secondo conflitto mondiale il fronte di Ortona era dietro l’angolo e qualche bottiglione se lo son giustamente scolato quei bravi ragazzi.

Un appuntamento di archeo-enologia sul Montepulciano d’Abruzzo, molto ben raccontata da Paolo Lauciani insieme a Francesco Paolo e suo figlio, il giovane Gabriele, futuro dell’azienda per spontanea e recente decisione. Ma parliamo di vecchi, che han tanto di bello da raccontare.

1880
Ha una fermentazione carbonica, un soffio vitale è un vino vivo e con pochissima solforosa, quella che al tempo veniva bruciata nella botte attraverso dischi di zolfo che il vino assorbiva solo in percentuale minima. Stabilità e longevità nel vino non stan lì certo per buoni uffici della solforosa! Armonia è la parola chiave e, come in musica, qui parliamo di un accordo, pur semplice che sia, fosse solo di DO maggiore, fra acidità, frutto (texture, estratto secco) e alcolicità. Vino dal colore luminoso, ambrato, oro che somiglia a un vin santo. All’olfatto è ossidativo più che terziarizzato ma ricorda profumi di straordinaria bellezza. Zafferano, erbe aromatiche e pasticceria. Un naso che non cede a sensazioni sgradevoli. Addirittura un cenno agrumato di chinotto.

Non accostabile a un marsala che vive di sapidità, perché questo vino ha una vibrante freschezza ed è il suo aspetto più sorprendente. Nell’800 le lunghe macerazioni non andavano granché di moda e dopo 133 anni mi pare che i risultati siano piuttosto appaganti oltre che di tutto rispetto.

1890
Un po’ più fitto il colore giallo-arancio dorato. Vivace ma si risolve con una nota salata che evidenzia un po’ di amarognolo sul finale. Sembrerebbe un’annata un po’ più squilibrata rispetto alla precedente, ma mantiene una nota di freschezza incredibile. Chiaramente su queste annate non parliamo di tannini.

1896
Somiglia al precedente e al naso ha sensazioni di legni evoluti. Liquirizia, erbe essiccate e camomilla. Miele di castagno con un richiamo dolce di pasticceria fragrante e una nota di caffè piuttosto evidente. Il sorso ha una sintesi energica di freschezza e sapidità, senza chiusure amare però quindi richiama il primo vino, il 1880, e con una piacevolezza che mai mi sarei aspettata. Mi sono emozionata 31 volte oggi, un’ esperienza grande, irripetibile. E ho preferito parlare solo dei grandi vecchi perché questi vini, come tutti i vecchi, sono assai eloquenti e meritano una degna sepoltura. Da oggi loro non ci sono più. Meno male che oggi c’ero.

Psicanalisi con Cristiana. Fenomenologia del bevitore naturale

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Psicanalisi con Cristiana. Fenomenologia del bevitore naturale

Forse non tutti sanno che in passato il bevitore naturale è stato oggetto di attenzioni psicanalitiche da parte di Sigmund Freud. L’occhio in tralice davanti all’etichetta di un vino (detto) naturale, può celare un disturbo (parole di Sigmund) che non di rado degenera in nevrosi compulsiva, ossessiva e financo schizofrenica. Il possessore di iPhone 7,5 che brama di stappare quell’etichetta di bianco, color marrone, di Paraschos, secondo il padre della psicoanalisi, è già in piena deviazione psicotica. Ecco quindi alcuni esempi clinici liberamente tratti dal libro bianco redatto dal board dello IOWA (International Organic Wine Agency).

Il caso di Armenio R. e la Malvasia macerata
Armenio R, fin verso i quarant’anni, è soggetto di scarso interesse per la psicanalisi in quanto non evidenzia significativi disturbi comportamentali. Vive in una grande città dove ha studiato con buoni profitti, ha un reddito medio/alto e guarda Porta a Porta su schermo Bang&Olufsen da lui stesso montato con stop a parete. Saranno i primi contatti con blog che parlano di vino a far suonare in Armenio quel campanello d’allarme valevole di considerazione da parte della psicanalisi. Segnali di disagio, veri e propri disturbi della personalità, si sporgono improvvisi a corrompere l’ordinaria quiete di Armenio che diviene commentatore compulsivo di blog, con evidenti turbe edipiche irrisolte, alla ricerca di un improbabile equilibrio fra aromaticità stremata e tannini irruenti.
L’intervento degli specialisti dell’IOWA ha prescritto una terapia a base di sauvignon di cantine sociali altoatesine che pare stia dando risultati incoraggianti.

Il caso di Tecla S. e l’anfora fuori terra 
Intelligente, astemia, collezionista di anfore, creativa, di bell’aspetto con tendenze narcisistiche e in evidente regressione alla fase anale. Iniziò a consumare alcol e a bere vini anforati in seguito a una tremenda delusione sentimentale, quando Gegio, promesso sposo e affermato speaker di Radio Maria, annunciò di voler cambiare vita per dedicarsi, in solitario, alla lombricoltura finalizzata alla produzione di humus in Patagonia. Tecla cadde in uno stato depressivo grave, caratterizzato da frequenti crisi di isteria, e per lungo tempo non si riprese. Dopo aver inviato una richiesta di aiuto per posta semplice ad Awana-Gana (che non le rispose) tentò il suicidio rompendo un’anfora a capocciate. Il caso, assai complesso, necessitò di terapie sperimentali a base di Brachetto d’Aqui che le veniva somministrato sotto ipnosi a causa del suo condivisibile rifiuto in stato di veglia. L’intervento dell’IOWA condusse ad eccellenti risultati integrando la terapia con dosi massive di Bianchello del Metauro.
Tecla S, a distanza di anni, può considerarsi guarita a tutti gli effetti e conduce una vita normale. Ha due splendidi bambini, usa la posta certificata e ha maturato una sana diffidenza nei confronti di Awana-Gana e, in generale, degli speaker radiofonici.

Il caso di Raniero M. e il Brett-à-porter
Impiegato in una grande impresa del nord con mansioni di scarsa responsabilità, trentacinquenne, single, insoddisfatto, annoiato, frequentatore di bar, enoteche e trattorie, Raniero R tende ad alzare il gomito con una certa frequenza pur senza manifestare i disturbi tipici della patologia da alcolismo conclamata. Un sognatore, come ce ne sono tanti, ama la vita libera, predicando il ritorno alla natura e senza usare la carta igienica.

Ma l’inconscio gioca brutti scherzi e un giorno nella testa di Raniero scatta un click, accade qualcosa, un meccanismo si rompe, riemerge il rimosso e il recondito si fa manifesto. Smette di lavarsi perché il sapone è strumento di controllo delle multinazionali proprio come le barrique: la botte vera ha da puzza’! Raniero M. è un classico caso di nevrosi da brett-à-porter che degenera in psicosi. In pochi anni, per chi gli vive intorno, la vita diviene un inferno; una strana forma di disturbo collettivo dilagante, come un morbo e di facile contagio. Consumista compulsivo di Mac, segue fior di opinionisti a piede libero su autorevoli social fonti, che ammoniscono: non crediate che giganti del calibro di Latour e\o Leroy siano al di fuori del raggio d’azione del brett!
Caso a tutt’oggi irrisolto, ha costretto gli specialisti dell’IOWA a gettare la spugna dopo numerosi tentativi falliti a base di Cabernet Sauvignon di Tasca d’Almerita e Turriga di Argiolas.
Su indicazione degli stessi, Raniero M oggi scrive su Intravino utilizzando uno pseudonimo.

Il mercato del vino in Qatar in pochi, semplici passi. Là dove si beve Krug in aeroporto

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Il mercato del vino in Qatar in pochi, semplici passi. Là dove si beve Krug in aeroporto

Sono di ritorno da un viaggio di lavoro in Medio Oriente con media sosta in Qatar, dove ho buttato un occhio alla situazione dei nostri vini sui mercati locali, in forte crescita di consumi wine&spirits. Faccio presente al lettore che nella lounge della Qatar Airways si somministra in calici adeguati e a temperatura perfetta direttamente Krug senza passare dal Prosecco Valdo, tanto per chiarire fin da subito con chi abbiamo a che fare e come tarare i contatori.

Tutto il resto si sa: gas, petrolio, grattacieli, grandi ristoranti, più di 2.000.000 di persone concentrate a Doha, dove non si vedono poveri ma ricchi ad abundantiam, fuori dal cui perimetro v’è il nulla. Almeno per i 40 minuti di macchina che separano la capitale dalle dune nel deserto.

In Qatar, in rispetto alla fede islamica, è vietato consumare alcol all’aperto, negli ambienti di lavoro, negli spazi comuni di grandi alberghi e basta. Per il resto, nei numerosi ristoranti stellati, nei bar e nelle decine di locali dove si muovono vita sociale e notturna, il consumo di vini e spiriti è molto elevato.

La vita si svolge negli alberghi di lusso. Spazi molto ampi e decine di ristoranti e cocktail bar dove passando al setaccio le wine list scarsamente rappresentate dai vini italiani, ci si imbatte, tanto per cambiare, nello Champagne. Anche qui brand fortissimo e status symbol come ovunque. E bravi francesi! Non è insolito veder stappare al Four Season di Doha, come aperitivo, una bottiglia di Dom Perignon al corrispettivo di soli 600 euro. Molto forte Lanson, offerto al calice da Hakkasan, Gordon Ramsey, Spice Market dell’Hotel W e altri; si vede che è molto buono e io non me ne sono mai accorta.  E poi tanti vini, preferibilmente bianchi per questioni climatiche (da quelle parti il caldo insopportabile picchia parecchio e per lunghi periodi) con i sudafricani molto gettonati assieme a cileni e neozelandesi. Tanto per cambiare, proprio come in Cina dove però i vini rossi hanno, in generale, un consumo maggiore.

Il Tavernello in versione doppiomagnum/tetrapak costa circa 30 euro ma la spesa media per l’acquisto di una bottiglia di vino in vetro per consumo domestico è di 10/12 euro; decisamente superiore alla nostra. Il dato che segnalo è la presenza di vari tipi di Vermuth italiano (del resto, non sarebbero grandi bar) più apprezzati e noti dei nostri vini, a giudicare dalla diffusione e dall’utilizzo nel bere miscelato, che a Doha è mediamente ben rappresentato.

Per quanto riguarda il vino italiano ho trovato Pèppoli, Forchir, Bastianich, Antinori. Più o meno la partita se la giocano questi nomi, con qualche presenza in più da Gordon Ramsey all’hotel St. Regis dove Langhe e Piemonte sono concetti un po’ confusi e forse meriterebbero una sistemata. Nel contempo anche una bella pulita alle porte dei bagni non guasterebbe, visto il prezzo a coperto da capogiro e il contesto complessivo di un albergo lussuoso e impeccabile dal punto di vista del servizio e dell’igiene.

Le carte dei vini in giro per Doha sono pressoché identiche e organizzate da un unico distributore autorizzato e governativo, QDC (Qatar Distribution Company, mentre l’importatore è Qatar Airways) che ha due store e può vendere alcol solo a residenti con permesso. Per ottenere il permesso è necessario avere un salario minimo di circa 1300 dollari mensili, versare un deposito di 300 dollari oltre alla dichiarazione della religione di appartenenza. Insomma, sensibili alla dottrina, all’ordine, alla disciplina ma decisamente liberali se si considera che, passando per il deserto, siamo a meno di due ore dal confine con l’Arabia Saudita, dove le cose girano in maniera ben diversa, purtroppo.

Credo ci sia ampio spazio per i vini italiani in Qatar. Se sei produttore di vino, vale la pena di provare. Se poi produci vino ma i tuoi parenti raffinano petrolio, puoi prendere due piccioni con una fava e se le cose non dovessero filare per il verso giusto hai una rapida soluzione a portata di mano. C’è tanto gas in Qatar, ma proprio tanto.

Caro bevitore di vini naturali, qui i conti non tornano proprio

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Caro bevitore di vini naturali, qui i conti non tornano proprio

Perché bevi vini naturali? Perché rispettano la natura e fanno meno male, semplice. La solforosa è responsabile del mal di testa il giorno dopo, insieme all’alcol con cui condivide questo primato. Le sostanze chimiche utilizzate in vigna sono tossiche e lo sappiamo, inquinano l’ambiente e il nostro organismo, quindi il ragionamento é lineare, non fa una piega e personalmente lo condivido. Trovo piuttosto coerenti alcuni paladini del vinnaturismo, soprattutto quei produttori che hanno fatto da apripista ma anche chi ne ha parlato e scritto per primo, chi ha pensato di fare come in Francia dove tutto questo ha avuto origine. Non amo le mode e nemmeno i radicalismi ma cerco di prendere quello che mi sembra utile per migliorare.

Cosa mi infastidisce in tutto questo allora, avendo appena dichiarato totale sintonia con l’assunto principale e cioè che se il vino naturale fa meno male sarà bene cominciare a produrne di più e a bere solo quello? Mi infastidisce la mancanza di coerenza, la malafede e ce n’é tanta in mezzo a voi, movimentisti vinnaturisti che non fate il vino ma lo bevete e giudicate dall’alto del vostro palato dotto. Bevete il vino naturale perché fa meno male, però la maggior parte di voi cucina con l’olio Bertelli o Carapolli, compera scatolame al supermercato, i ragù della nonna in offerta, lo stracchino di suo marito Nanni, i tortelloni del cugino Giovanni che mentre mangiavate sfoglia grezza ha fatto i soldi a palate. I salumi preconfezionati, i prodotti surgelati, il baccalà pieno di solforosa. Ho letto alcuni di voi che celebravano il consumo della nota crema di nocciole Tunella in pubblico e sui social, sbancando il contatore dei like. Però sul vino no, sul vino non si scherza, perdioniso!

Conosco persone che non perdono una fiera di vini naturali, pronte a difendere un vino puzzolente in nome della naturalità, facili a ignorare le origini dell’olio extravergine di oliva che aggiungono sulla bruschetta. Non parliamo dei ristoranti con le carte di vini naturali che utilizzano oli economici (perché comprare olio buono italiano costa caro) verdure irrigate con acque tossiche, frutta trattata coi pesticidi e via dicendo. Per debellare la cocciniglia sui limoni del mio terrazzo mi sono ritrovata il rosmarino radioattivo e non posso più cucinare le patate al forno.

Un noto marchio di abbigliamento di lusso ha dichiarato nei giorni scorsi l’intento di abolire in breve tempo e su tutta la produzione, le componenti chimiche ritenute tossiche. Qualche movimentista vinnaturista che conosco io, se ne frega altamente dei colori tossici sui filati dei suoi mutandoni e utilizza regolarmente tessuti sintetici a contatto con la pelle, cosa che evinco da sgarbati olezzi a distanza nemmeno troppo ravvicinata.

E allora? I conti non tornano, c’è un corto circuito, una mancanza totale di coerenza. D’altra parte i vignaioli naturali quest’anno a Roma ci faranno degustare le loro ambrosie nei lussuosissimi locali dell’hotel Excelsior di via Veneto. Avranno capito questi poveri produttori che la location stavolta c’entra ben poco con Cerea e Fornovo e che se non si puliscono le scarpine prima di entrare in cotanto lusso faranno la figura dei barboni? Quello è l’hotel degli emiri con le maniglie d’oro nella Limousine, dei russi col sigaro in mano che accompagnano la biondina molto gnocca a fare shopping da Chanel. Quello è il grand hotel Excelsior di via Veneto, quello sontuoso, lussuoso, chicchissimo. Quello dove io, se fossi un vignaiolo naturale, non andrei perché mi sentirei a disagio.

Ristorazione e cliché. Basta turbotrattorie, rimettiamo le tovaglie ai tavoli

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Ristorazione e cliché. Basta turbotrattorie, rimettiamo le tovaglie ai tavoli

Sono solo una cliente, una che paga il conto al ristorante e credo che mangiare bene in Italia con una buona scelta di vini stia diventando sempre più difficile. La grande ristorazione e la sommellerie di altissimo livello sono sparite insieme alle tovaglie e se parliamo di locali di fascia media, quelli avvicinabili con maggiore frequenza e che una volta si chiamavano trattorie, la situazione è generalmente disastrosa.

Abolisco volentieri, almeno in questa sede, il termine gastrobistrot che ne evoca di altrettanto fastidiosi come apericena o speakeasy, dilagante in un’accezione errata, perché non ho voglia di incazzarmi proprio adesso che la parola lounge è un lontano ricordo.

La situazione cantine e carte dei vini è peggiorata ovunque negli ultimi tempi, alla ricerca di un’originalità insensata, di una personalizzazione che si affida al “famolo strano” anziché al “famolo meglio”. La profondità di carta, ovvero le vecchie annate, sono un ricordo degli anni passati, non le cerca più nessuno in Italia se non quattro imbecilli come me e qualcun altro di voi.

Non mi sento a mio agio nelle turbotrattorie contemporanee, create sul modello dei locali newyorkesi o dei bistrot di Parigi a menù fisso. Può essere una proposta, un’alternativa, ma se diviene stile prevalente rischia di far sparire la nostra trattoria quasi estinta, a dire il vero, se non in versione a portata di turista.

Che bisogno c’è di scopiazzare dagli altri quando abbiamo per tradizione una delle cucine regionali più buone del mondo? Sembrerebbe una cosa ovvia. È conseguente e normale che in un locale dagli spazi lisci che assecondano le manie di un architetto viaggiatore più che i talenti del cuoco, si finisca per mettere la polvere di caffè sul purè o il sale alla vaniglia sull’abbacchio a scottadito. Una volta che hai messo su un locale del genere, che ricorda un moderno salone di coiffeur, è ovvio che ti passi la fantasia di servire i rigatoni al sugo di coda alla vaccinara o i passatelli in brodo. Meglio proporre 18 variazioni di hamburger, come capita spesso a Roma; un piatto che non ci è mai riuscito e non vedo ragione per dedicarcisi tanto.

Una bella cassoeula, preparata secondo la ricetta tradizionale, non è adeguata a soddisfare la voglia di fashion che ci assale quando sbarchiamo a Milano. Cosa proponi al pubblico, a questo punto? Hai fatto trenta e fai trentuno: sposi una cucina modaiola come lo stile del tuo locale che propone menù uguali a quelli degli altri e apri la tua turbotrattoria in grazia di Dio. La guancia brasata, il polpo grigliato servito su purea di patate, il baccalà, le capesante (che Dio benedica il giorno in cui ne troverò in Italia una veramente buona), le alici del Cantabrico (che il WWF si sta sbattendo per ripopolare), il maiale nero dei Nebrodi che ha stracciato suo cugino di sù, obeso e demodé, che adesso vota Lega e ce l’ha con i terroni.

Preparazioni rigorosamente sottovuoto, cotture lente a bassa temperatura, quindi fatevi piacere le carni lesse perché il concetto di cauterizzazione per un po’ lo dobbiamo mettere da parte e poi c’è l’orto. Che non è importante se hai piantato tutto su un suolo del piffero con un’enorme pompa di benzina dall’altra parte della statale che potrebbe inquinare i terreni circostanti. L’importante è assimilare il concetto di Km zero. Così, il carburante che risparmi per i trasporti che inquinano te lo mangi insieme alle carote.

In Italia abbiamo prodotti e una cucina tradizionale regionale unici, li abbiamo solo noi (per ora!) invece importiamo idee fusion da ogni dove, senza valorizzare abbastanza le materie prime locali. D’altra parte basta guardare il livello di formazione delle nostre scuole alberghiere per capire quanto siamo distanti dalla consapevolezza del valore di questo patrimonio. Dovrebbe essere prestigioso per gli stranieri mandare i figli in Italia a studiare enogastronomia, così come lo è studiare finanza a Londra per chi ha la fortuna di poterselo permettere. Il pane, la pizza, i formaggi, gli agrumi, la pasta artigianale prodotta col grano nostro, l’olio, la sfoglia all’uovo, il vino, il pesce azzurro del mediterraneo che è il più buono del mondo e le nostre ricette di cucina. E con tutto questo ben di Dio abbiamo bisogno di inseguire i cliché?

Noi possiamo andare a testa alta anche dinanzi ai francesi che se la tirano tanto. Rimettiamo le tovaglie ai tavoli, anche quelle a scacchi, recuperiamo la trattoria italiana, il nostro senso dell’accoglienza, della ristorazione, la simpatia dei nostri dialetti. Prendiamo le distanze da questa omologazione e valorizziamo le diversità, ne abbiamo tante e sono un patrimonio che una volta perso sarà difficile recuperare. E non lasciamoci contaminare da sciocchezze come chiamare le signore madame, uso ormai diffuso in molti locali di Milano.

Perché noi, con un po’ di sicurezza in più, facciamo un bel paiolo a tutti quanti, altroché.

Dalle 18 è aperto Eataly a Milano. Mi vedete nella selfie con Oscar Farinetti?

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Dalle 18 è aperto Eataly a Milano. Mi vedete nella selfie con Oscar Farinetti?

Milano, sveglia alle 6.30 e giù in palestra ad espiare, a mondare il peccato. Non voglio toccare cibo per tutto il giorno. Stasera qui si svolgerà un evento importante cui tengo moltissimo e devo andare necessariamente a pancia vuota, nell’invito era specificato: qualcosa da assaggiare ci sarà.

Capperi di Salina! E chi se la perde un’occasione del genere. Signori, la stampa che conta alle 18 di oggi è convocata da Eataly, in piazza XXV Aprile, che aprirà le porte al popolo solo la settimana prossima. Ma tutti quelli che contano sul serio potranno visitare questa sera Eataly in anteprima, condotti per mano da quel genio di Oscar Farinetti. Io ci sarò perché non conto e non ho mai contato, ma mi bacia la fortuna da quando ero piccola. Tié!

Ovviamente, per l’occasione, mi sto facendo sistemare come si deve nel salone degli eredi di Aldo Coppola. Bevo tisane depurative da stamane e faccio tutto ciò che posso per essere al massimo della forma, dopo aver smaltito i bagordi alcolici di ieri sera in una sauna che, temo, mi toccherà pagare nuova; l’ho mollata che sapeva di barrique di dodicesimo passaggio, non va più bene nemmeno per una base spumante di falanghina, metodo Solera. E vabbè, pazienza, un problema per volta, intanto mi occupo di questa sera e arriverò digiuna, immacolata, possibilmente libera.

L’avverbio è importante perché  in caso di débâcle ipoglicemica sarò costretta a mangiare prima qualcosa, ovvio, ma l’obiettivo di contenimento è fissato sul 40% in meno rispetto ai miei standard abituali, inutili, eccessivi e soprattutto nocivi per la salute e per l’ambiente. Insomma a me la parola libero piace, per quel che conta io l’appoggio. Addirittura sarei per l’estensione del termine anche ad altri prodotti confezionati. Pane libero, pasta libera e biscotti liberi, perché no? Anzi, facciamo così: panettone libero, pandoro in porta, attaccanti i torroni e non se ne parli più!

L’apertura di Eataly a Milano non è un evento da poco, dopo il successo di New York e di Roma le aspettative alte sono ben fondate, la macchina è oliata, gira e propone offerte diverse a seconda del caso. A Roma c’è molto spazio per la birra artigianale, ad esempio, soprattutto home made, mentre a New York ho sentito più Peroni nell’aria. Ma son donna di mondo e se non batto ciglio a Manhattan a casa di palati fini che preparano l’amatriciana col prosciutto cotto, figuriamoci cosa me ne importa di una birra che ha ben poco da spartire con l’artigianalità.

Sono curiosa di vedere Eataly a Milano e di sapere chi farà lo show cooking per primo. Forse il vincitore di Masterchef, nonostante le polemiche? E chi lo sa, ma non vedo l’ora di esserci, son sincera. Anche se per un attimo, un po’ di corsa, quando ho letto quella mail di convocazione con la postilla di garanzia: “qualcosa da assaggiare ci sarà” ho sperato che l’invito me l’avesse inviato il mio amico Rocco Siffredi. Lui sì che è un artigiano.

[Post in aggiornamento. Appena ho foto, le aggiungo: torna numeroso].

Un Oscar concentratissimo

Oscar, colto da una renzite acute, mentre arringa la stampa

Il nuovo che avanza. Cino Tortorella, detto “il Mago Zurlì”: che fine ha fatto la rottamazione?

Considerazioni finali dalla vostra inviata: Piu di 300 dipendenti. Il posto è molto bello e i lavori sono stati eseguiti grande cura e buon gusto. Rispetto a Roma è  più raccolto, meno dispersivo. Non ha quell’aria da capannone. Ogni sera ci sarà spettacolo e si suona: al teatro Smeraldo hanno suonato Woody Allen, Celentano, Gaber, Jannacci e non so se mi spiego.

Parere personale: molto meglio di Roma. Abbiamo anche provato un po’ di cose molto buone fra cui il pane, i fritti di Torrente (sperando rimangano buoni, non come a Roma) battute di carne buonissime. E Birra Nastro azzurro, a proposito di artigianalità.


Il sacrosanto diritto di stare bene al ristorante. Dove sono finite ospitalità e accoglienza?

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Il sacrosanto diritto di stare bene al ristorante. Dove sono finite ospitalità e accoglienza?

Se si fa eccezione per quelli che vivono solo per postare in rete, esiste una maggioranza di persone che frequenta i locali per ricrearsi, per stare bene e, non di rado, torna a casa insoddisfatta e annoiata. Uno che se ne frega di fotografare i piatti e vuole semplicemente mangiare, bere vino o un cocktail senza capirci nulla, ha diritto di sentirsi a suo agio quanto un appassionato esperto e di stare bene.

Con la crescita di interesse nei confronti della cucina d’autore, grazie anche a capolavori comunicativi come Master Chef e alla porzione meno autorevole della critica che ha trasformato le cucine in teatri, gli chef in primedonne e le carte dei vini in icone da rimirare, sono scomparsi il senso della ristorazione e dell’ospitalità.

L’ospitalità dovrebbe essere il primo obiettivo e punto di forza per chi offre servizi nella ristorazione. Ma l’oste non c’è più (purtroppo) e il risultato dell’abuso di termini come eccellenza, in nome di un’offerta che soddisfi la nicchia, è che andare al ristorante è diventato noioso. E il concetto di esclusivo è rimasto in uso in pochi settori, dove è prossimo a sposare una china pacchiana.

Il senso della ristorazione negli ultimi anni è andato a ramengo in nome della centralità di una cucina troppo spesso afflitta dai disturbi comportamentali di chef egocentrici e narcisi, esperti di se stessi, la più alta qualità di materia prima che abbiano mai trattato. Quando sedersi al ristorante diventa un obiettivo, si perde il senso dell’ospitalità, che dovrebbe creare agio, se non sbaglio. La serata si trasforma in show cooking, non finisce mai, diventa una cena tantrica*, con la messa cantata per la descrizione dei piatti e l’intercalare di mini portate, interruttori di “cortesia” che precedono l’arrivo di ciò che avevate ordinato e volevate, effettivamente, mangiare.

Andare a cena fuori c’entra di rado con l’evento, con lo scopo. Non è un obiettivo (casomai il dopocena!) perché attiene al momento, cioè alla pausa e alla ricreazione che ritemprano corpo e spirito, non all’acquisto di un oggetto che rimane. E il compito principale per un ristoratore dovrebbe essere quello di garantire l’ospitalità, come succede a casa quando ricevete persone e vi preoccupate, principalmente, del loro benessere. Offrite un calice di vino, un comodo sofà, sorrisi, attenzioni, argomenti, chiacchiere e, soprattutto, agio. Non lo interrompete con la quaresima della descrizione dei piatti e non lo trattate a pesci in faccia, in virtù di un talento ai fornelli, come si permette di fare qualche chef di mia conoscenza, che frequenta più sale da trucco che bollitori in cucina.

Se penso al concetto di ospitalità e al senso della ristorazione, in posti dove mangio e bevo bene, riduco drasticamente l’elenco dei locali che mi piacciono e in cui torno volentieri. Potremmo stilarlo qui un elenco, non ci vuole molto e forse, coi suoi limiti amatoriali, potrebbe essere una guida utile.

Quello che fa stare bene, in questo mondo, non mette soggezione. Il bello, l’arte, anche le persone piacevoli, non mettono soggezione. Hanno più a che fare con l’agio, che è un diritto di tutti.

* Vedi: Sesso tantrico

Che Vinitaly 2014 sarebbe senza Intravino Meeting? Guardate chi vi porto, altro che Rocco Siffredi

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Che Vinitaly 2014 sarebbe senza Intravino Meeting? Guardate chi vi porto, altro che Rocco Siffredi

Amici, siete pronti per Vinitaly 2014? Siete carichi, caldi e tonici per partecipare al Meeting di Intravino? Segnatevi la data allora, perché siete tutti invitati. Domenica 6 Aprile, ore 13, 2° piano PalaExpo Pad. Lombardia Stand Franciacorta B/C16. Vado pazza per il Vinitaly, mi diverto un casino, non posso farne a meno. Lo scorso anno presentai Rocco Siffredi, le più spiritose e birichine lo ricorderanno (e chi se lo scorda Rocco!) ma, anche quest’anno, donne, potete star tranquille che non vi lascio a bocca asciutta.

Al meeting di Intravino vi porto uno da giù di testa col quale piazzereste volentieri un bel paio di corna al marito, uno che vi fa sognare l’amore romantico a Parigi, che vi fa vedere le stelline senza fare il biglietto della ruota panoramica che, nel caso, farebbe pagare a voi. Un essere angelicato, celestiale, che armonizza sensualità, tenerezza e savoir faire ma è, nel contempo, sincero, genuino e schietto; un uomo che non ha peli soltanto sulla lingua, per il resto sembra il cugino di un Terranova. Il suo nome è Alessandro Morichetti, per gli amici: Hello Morikitty, la dolcezza fatta a uomo. L’originale, l’inimitabile, quello che ama gli animali e fa il gattaro coi gattini degli altri. L’ho scambiato con sei uova fresche di pollaio, un po’ sovrastimato, non posso dire di aver fatto l’affare del secolo ma, intanto, Morichetti sarà lì per voi e lo potrete conoscere, ammirare, baciare e selfizzare a piacimento!

Ma non finisce qui perché domenica, nello spazio che ci offre il Consorzio della Franciacorta, oltre a cibo e vino per tutti, troverete anche gli altri paladini di Intravino, quei masnadieri che le cose non le mandano a dire e, quando ci si mettono, son più fastidiosi e scomodi della dentiera di un altro in bocca. Ci saranno il direttore Antonio Tomacelli, che non dirà nulla perché non si parla con la bocca piena e Fiorenzo Sartore, il mio Dio in terra da quando Bombolo ci ha lasciati. Conoscerete Pietro Stara, il più bravo degustatore dell’occidente cristiano e stimato esperto di olfazioni. Uno che per mantenere il naso in allenamento a stretto contatto coi sentori vegetali, taglia il prato brucandolo e, per evitare sgradevoli inconvenienti durante l’esercizio, ha insegnato al suo cane a far pipì e pupù dentro casa.

Non mancherà Emanuele Giannone, il ragazzo che parla sette lingue straniere contemporaneamente e dalla scrittura talmente inestricabile che il traduttore di Google l’ha mandato al diavolo prima di darsi malato e decidere di cambiare ramo. Sarà con noi Jacopo Cossater, il bello che sembra James Bond ma continua a confondere Lazio e Umbria come i bambini che fan casino fra la mano destra e la sinistra. Mentre Giovanni Corazzol da Feltre, lo snobbatore per antonomasia (che, in compenso, beve Prosecco), al Vinitaly non ci vuol proprio venire. Ma sono certa che si incarterà da solo, finendo per snobbare quelli che snobbano e, per tanto, ce lo ritroveremo comunque fra i piedi. Al Vinitaly ci saranno proprio tutti e un’adunata così non me la posso proprio perdere.

Anch’io sarò presente al meeting di Intravino e non vedo l’ora di incontrare anche voi. Ammesso che sopravviva al pomeriggio di sabato a Cerea. Mica è detto!

Per Opera Wine non sono Miss Vinitaly. Però io un pensierino su Mister Vinitaly ce lo farei

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Per Opera Wine non sono Miss Vinitaly. Però io un pensierino su Mister Vinitaly ce lo farei

Anche Vinitaly rende omaggio al recente premio Oscar La grande bellezza, e a Opera Wine Stevie Kim lascia tutti a bocca aperta. Pare abbia convocato il team di sceneggiatori del film Boris, che in tre giorni di clausura hanno partorito un’ideona: il concorso di bellezza (e tutti in coro: genio!). L’elezione di mr. & miss Vinitaly International è avvenuta davanti al folto pubblico di Opera Wine, la manifestazione che da tre anni, al palazzo della Gran Guardia, vede protagonisti i migliori 100 vini italiani secondo Wine Spectator.

Alessandra Scarci e Andrea Amadei sono gli eletti dalla giuria composta da Stevie Kim, che, a quanto pare, buon gusto ne ha da vendere. Alessandra col vino c’entra più che altro per legami di parentela ma è molto più bella e giovane di me e di Adua Villa e, quindi, merita una ribalta del genere che senza dubbio le offrirà opportunità imperdibili nel mondo del teatro, sua vera e grande passione.

Andrea invece, con qualche giustificata incertezza per la giovane età, è già piuttosto noto nell’ambiente enogastronomico ed è la previdenza integrativa di un altro bello, Federico Quaranta, dal momento che Federico lo ha schierato con successo a Decanter. Andrea Amadei si aggira in fiera a Verona, non fatevelo scappare donne, selfizzatevi con mister Vinitaly, il ragazzo dalla barba color Otello di Ceci, il Lambrusco preferito da Federico Quaranta.

5 metodi per una notte bollente. E ora alzi la mano chi ha fatto sesso durante il Vinitaly

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5 metodi per una notte bollente. E ora alzi la mano chi ha fatto sesso durante il Vinitaly

Insomma com’è andato questo Vinitaly? Non male, dai. Clima estivo, produttori meno depressi del solito, pubblico internazionale soprattutto russo e cinese e un bel po’ di vini buoni. Bene anche Vivit e manifestazioni collaterali, da Opera Wine ai fuori città come Cerea e Villa Favorita. Han filato liscio anche bisbocce e feste scatenate perché non è mica facile far ballare fino alle quattro del mattino produttori, blogger, giornalisti, ristoratori e qualcuno che fino al giorno prima si dava del “lei è uno stronzo!”. Ci è riuscito Planeta con la festa più bella di tutte in un palazzo storico che è un capolavoro e che speriamo di aver restituito sano, considerando il tasso alcolico collettivo dopo Cerasuolo di Vittoria, spumante, chardonnay e svariati gin&tonic.

Va bene ma, a parte questo, al Vinitaly, avete fatto sesso oppure no? Confidatevi, mica lo vado a dire in giro! Io, ad esempio, ci ho provato col prestigiatore alla festa di Planeta ma mi ha dato il due di picche (troppo facile!). Insomma non è che al Vinitaly andiate solo per questioni di business, si fa tardi la notte, si avvicinano tante persone e nel gioco balordo degli incontri capita che qualcuno prenda la giusta direzione: camera da letto.

Lo so bene che lo avete fatto ma come lo avete fatto? Perché è la qualità che conta, il risultato. Il resto son tutte chiacchiere.

Metodo classico
Succede solo fra coniugi non necessariamente sposati fra loro. Posizione canonica, un po’ di noia nell’aria. Breve permanenza sui lieviti e veloce presa di spuma (quasi da record) ma ci voleva dai! Alla fine il risultato è scoppiettante, ma son più bravi i francesi.

Macerazione biodinamica
Camporella facilitata dal clima mite quest’anno. Momenti romantici baciati dalle stelle nella volta celeste della Valpolicella a un tiro di schioppo. Risultato più che buono. Però l’anno prossimo, per schivare i reumatismi, evitate di risparmiare dividendo la stanza a Verona con un agente di commercio.

Passaggio in barrique
Solenne, griffato e drappeggiato, l’incontro avviene in una residenza nobiliare in centro a Verona. Risultato scontatissimo, già sentito, sapor di deodorante, nulla di autentico. Troppa attenzione ai particolari distrae la coppia, la rende simile a tutte le altre, omologata, annoiata, stanca. La ricerca del consenso avvilisce i vini quanto le persone. Fantasie preliminari col maggiordomo son l’unico singulto di vita che vi accompagnerà fino al Vinitaly 2015.

La malolattica
È successo mentre cercavi in fiera i vini del tuo produttore preferito; ad un tratto, è apparsa lei e tutto si è fermato. L’hai rincorsa per due ore assaggiando cose insulse a lei gradite e, finalmente, su un rosato di sagrantino, sei riuscito ad abbordarla. Ma che brutto carattere, accipicchia quanto è asprigna! Ha un’acidità tagliente che non avevi messo in conto e solo una malolattica ti può salvare. Il caldo non manca, la temperatura sale, la malolattica parte come un siluro e la serata procede. Pronti per andare in bottiglia!

La vasca di cemento
Per decantarvi naturalmente avete scelto la vasca di cemento con idromassaggio nella spa di una vecchia cantina di Bardolino che altrimenti si sarebbe convertita all’allevamento di lombrichi rossi californiani. Le cantiniere in short e tacco 12 hanno fatto il resto. Valeva la pena di bucare Opera Wine e la festa di Planeta. Ma anche il meeting di Intravino.

[Crediti ad uso degli ultimi tre lettori innocenti rimasti: l'immagine è tratta da Nimphomaniac, il film di Lars von Trier].

11 cose da sapere sui ristoranti negli Emirati Arabi, dove il lusso non conosce limiti

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11 cose da sapere sui ristoranti negli Emirati Arabi, dove il lusso non conosce limiti

Dobbiamo essere pregiati e costosi per esercitare degnamente l’arte dell’ospitalità? L’accoglienza attiene al lusso? Esiste un mondo del lusso che leggiamo sulle riviste pattinate (no, non è un errore di battitura: per rifuggirle faccio prima quando indosso le rotelle) che molti di noi hanno avuto modo di visitare almeno una volta nella vita. Abu Dhabi, Dubai, Doha, Muscat sono città faraoniche del Golfo Persico, luoghi dove il lusso non conosce limiti. Soldi qui ne girano davvero tanti per business ma non solo. Soldi sprecati, fumati, dilapidati, letteralmente buttati nel cesso.

Ma se da un lato sarebbe sciocco accostare il nostro ad un mondo che galleggia sul petrolio (Abu Dhabi ricchissima e, fra poco, grande capitale culturale con il Louvre in costruzione o Dubai che vive su finanza, turismo e immobiliare di alto livello, passeggiando in Rolls Royce), dall’altro non possiamo non rilevare differenze enormi nella proposta e nel rapporto col pubblico. E, insieme a questo, purtroppo, un livello di accoglienza e buona educazione decisamente superiori ai nostri.

Parlo di servizio, locali, ristoranti, di chef stellati, cucine, qui principalmente fusion, con forte influenza asiatica e mediterranea. La ristorazione di lusso in questi paesi, purtroppo, è complessivamente un’altra storia. Lasciamo stare il concetto di bello che è soggettivo e a casa mia coincide con un posto semplice come il Clandestino di Moreno Cedroni, più che col mastodontico circo Orfei che è il Burj al Arab (La Vela), dove manca solo il domatore di tigri.

Basti pensare che nella prima classe Emirates, dove si bevono Lynch Bages e Dom Perignon a volontà, il pubblico ha una Spa a disposizione. Perché quando ti prende un desiderio incontenibile di Hammam sei peggio di una donna incinta e non è che puoi resistere cinque ore e mezza, il tempo di arrivare dall’altra parte, diamine!

Per realizzare tutto ciò servono un pozzo di quattrini e francamente, potendo, cercherei di spenderli meglio. Ma non è questo il punto. A parità di livello di ristoranti, da noi manca spesso qualcosa che non ha a che fare coi soldi ma, principalmente, con insane abitudini. Costumanze difficili da superare, pessima tradizione per chi ha una storia così interessante da raccontare.

Ci manca qualcosa che non si paga e semplicemente non ci interessa, in quanto avvezzi al sacrificio di sedere sul bello. Salvo poi trattarlo malissimo perché tanto a ripulire ci pensano gli altri, sempre che ci siano i soldi per farlo. Il gusto pacchiano è dominante nei luoghi di cui parlo ma la buona educazione, l’ospitalità e il rispetto reciproco fra staff e cliente sono canoni inderogabili.

Nei ricchi paesi del Golfo, entrando in un ristorante, di certo potete contare su:

1. Accoglienza sorridente da quando scendi dal tassì e uguale per tutti: se un alimento non è fresco, il piatto esce dalla carta. Non viene sconsigliato ad amici o habitué e sbolognato agli avventori.

2. Mise en place impeccabile, cura delle luci quasi maniacale. Mi riferiscono della controversa, possibile candidatura di Storaro quale prossimo assessore alle luci nei ristoranti di Dubai. Poltrona apparentemente sciocca quanto sinceramente ambita dai light designer di tutto il mondo. Storaro, non senza polemica, avrebbe dichiarato: “Famolo strano: spengo tutto”.

3. Non esiste indicazione in carta di piatti o vini non disponibili. Nel caso si ristampa la pagina, non ci vuole molto e si può far anche senza il ciclostile.

4. Acqua minerale e una salvietta di cotone umida per rinfrescarsi le mani sono serviti quasi contemporaneamente alla vostra seduta. Ho visto coi miei occhi una S. Pellegrino andarsene indignata per via di un tavolo in ritardo clamoroso di 5 minuti.

5. Tempi di attesa molto contenuti fra una portata e l’altra col paradosso, francamente eccessivo, di un bellissimo ristorante dove al telefono, in fase di prenotazione, mi hanno chiesto il conto e offerto un limoncello.

6. Bagni così puliti che ci puoi mandare i bambini in vacanza. Se poi si tiran dietro anche la mamma e prolungano il soggiorno, hai svoltato e batti il cinque.

7. Mancia gradita ma non obbligatoria. Niente musi lunghi se sei uscito di casa senza spicci e nessuno ti biasima se sembri il taccagno che sei.

8. Carta dei cocktail sempre disponibile e aggiornata. Di solito preferita dal pubblico visti i ricarichi sui vini che non stanno né in cielo né in terra. E meno male che qualcuno scrive che da quelle parti non si beve!

9. Nessuno si sogna di rifiutare le carte di credito e non esiste il conto scritto a mano su un bloc notes.

10. I camerieri non raccontano i loro pani fatti in casa in endecasillabe mentre cerchi di baciarla rimediando, goffo e a stento, la marachella della sera prima.

11. I cuochi non si mettono la cipria.

Bollinger R.D. 2002 in poche parole: buonissimo, mi manda al manicomio

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Bollinger R.D. 2002 in poche parole: buonissimo, mi manda al manicomio

Il 1952 è stato il primo millesimo di R.D. Bollinger, uscito sul mercato nel 1967. Possiamo dire che si tratta della pietra miliare delle riserve dello Champagne. L’azienda è familiare e ha tramandato un bel po’ di appunti circa la sperimentazione e l’esperienza di madame Bollinger su questo grandissimo Champagne. R.D. è prodotto con uve premiere e grand cru per l’80% da vigne di proprietà e il resto è in affitto ma nessun’uva viene acquistata. La prima fermentazione avviene in barrique, cerca e trova un’ossidazione controllata. Una permanenza così lunga sui lieviti riesce a dare molta complessità e questo R.D. 2002 – prodotto in sole 20.000 bottiglie – ne ha da vendere e, in generale, non mancava negli altri millesimi. Quindi naso e palato da grande vino rosso per struttura e frutto importante, con un’ossidazione veramente piacevole. E poi una grande freschezza tipica dello Champagne molto più giovane.

L’andamento climatico nel primo semestre del 2002 non sembrava promettere bene ma  poi l’estate è stata più calda e il risultato ha svelato un’annata fra le migliori del secolo. R.D. di Bollinger è noto per la scelta del pinot nero ma col 2002 aumenta la quota di chardonnay fino quasi al 45%.

R.D. 2002 ė stato presentato questa mattina al Jumeirath Grand Hotel Veneto di Roma in abbinamento a un’ostrica, un raviolo ripieno di funghi e un assaggio di Comte, formaggio francese stagionato. Tre abbinamenti perfetti per esaltare sapidità, complessità, acidità e freschezza, le note più evidenti che accompagnano uno dei migliori frutti che abbia mai trovato in una grande bottiglia di Champagne. Bollinger R.D. 2002 ha un perlage interminabile e perfetto sia nel bicchiere che in bocca. È uno Champagne ancora molto giovane e questa è la mia sintesi: buonissimo, mi manda al manicomio.

Sei un agricoltore single? Un programma tv ti aiuterà a trovare moglie. Seguono suggerimenti

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Sei un agricoltore single? Un programma tv ti aiuterà a trovare moglie. Seguono suggerimenti

È una gran bella società la nostra, mi piace la piega che hanno preso i rapporti sociali. Andiamo tutti di fretta e, con questa crisi, ci tocca correre il doppio rispetto a prima per guadagnare la metà, ammesso che ci paghino e non c’è tempo per avvicinare, conoscere, corteggiare o conquistare. Per fortuna web e media ci vengono in aiuto con siti, applicazioni e programmi TV. Le novità in rete sono diverse.

C’ è adottaunragazzo.it, vero e proprio supermercato per signore dove acquisti uno che ti piace, lo butti nel carrello e una volta che hai pagato fai come ti pare, approfittando anche di offerte convenienti come la settimana del pel di carota, che soddisfa le appassionate di fototipo irlandese, o quella dell’orsacchiotto peloso, per chi non resiste all’indiscutibile fascino della moquette.

Un’applicazione di incontri che sta avendo un enorme successo di pubblico è Tinder, che offre la possibilità di andare al dunque subito con tre click, ovunque nel mondo, con un raggio d’azione da voi stabilito e indicato in chilometri, permettendovi di risparmiare benzina, di declinare impegni per il futuro, cene noiose e inutili coccole a fine incontro. Una versione simile per gay funziona ancora meglio e si chiama Grinder, usatissima dalla community che non stacca l’occhio dalla app nemmeno il giorno del Pride.

Wired ci riferisce, invece, di un sito per trovare finti fidanzati su Facebook, un’applicazione per sfigati single che sentono la necessità di millantare il credito con gli amici e che tranquillizza tutti garantendo: niente sesso, solo post in bacheca. Che suona un po’ come: stai sereno, nun se deve scopà!

Insomma ce n’è davvero per soddisfare chiunque. Ma una cosa è accontentare chi cerca una notte di sesso o semplicemente fare il gradasso, altro è sistemare chi vuole un compagno per mettere su famiglia, soprattutto se vive in campagna. Se siete agricoltori un po’ all’antica o, meglio, tradizionalisti, pastori, produttori di vino, domatori di mucche, allevatori di api, lombrichi o cavalli, uscite dalla grande rete e non perdetevi il casting dell’anno. Citiamo direttamente il comunicato: “Scrivi a casting2014@fremantlemedia.it o chiama il 3311859552 per partecipare al casting del nuovo programma televisivo che ti aiuterà a trovare l‘anima gemella!”

È in programma infatti una sfiziosissima trasmissione reality (non realtà, badate bene) con un parterre di campagnoli in cerca dell’anima gemella. Ci si domanda se villani, bifolchi e cafoni verranno discriminati dal casting ma la redazione è abbottonatissima e la suspence cresce. In tempi di crisi si aggiornano anche i cliché, gli stereotipi, non è più tempo di Marilyn che voleva sposare un milionario, qui tocca puntare sulla concretezza rurale, il ritorno alla terra, alle sue radici e ti saluto Wall Street.

Non pretendiamo di saperne di lombriapifrutticoltura, ma possiamo essere veramente utili per tutti quei viticoltori, vivaci e insoddisfatti che non ne possono più di coricarsi con le galline.

L’outfit è fondamentale, poche storie, quindi d’estate è obbligatorio il cappello di paglia, senza nastro per lui, con nastro coloratissimo per lei. Camicia chiara fuori dai pantaloni comodi ma non informi. Cruciale, difficile ma fondamentale sarà la scelta delle scarpe che devono garantire un appoggio sicuro quando scendete atletici dal trattore ma senza evocare sostegni ortopedici a carico del SSN, inopportuni in periodi di spending review e brutti da morire. Fustagno per pantaloni e giacche durante il periodo della vendemmia.

Tenete a portata di mano i guanti da lavoro in caso di ispezione, ma in video e in pubblico sono da evitare come la peste, quindi manicure resistente e naturale: vietate le incursioni al nail bar per le signore. Presentatevi in maniera spontanea, evitate le affettazioni e dimenticate di essere davanti a una telecamera, il vostro fascino è legato all’idea di rustico, originale e autentico, quindi, la domanda che sorge spontanea, impetuosa e vi formulo nella lingua di Dante è: agricoli, ma voi che cacchio ci andate a fare in tivvù?


Controcorrente: Carlo Ferrini produttore di vini? Ebbene, Giodo 2011 mi piace

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Controcorrente: Carlo Ferrini produttore di vini? Ebbene, Giodo 2011 mi piace

Parlare bene di Carlo Ferrini mi procurerà ridondanti rimbrotti da ‘ste parti e mi toccherà sparare più alto del solito il volume del tappeto sonoro, a base di Rolling Stones negli ultimi giorni. Ma sono laica e quelli che assaggiano i vini partendo dai pregiudizi mi fanno venire l’orticaria.

Ho provato Giodo 2011, Toscana igt Sangiovese prodotto a Montalcino da Carlo Ferrini e mi è piaciuto molto. Ma come? Carlo Ferrini il winemaker? No, Carlo Ferrini agronomo, poi enologo e ora anche produttore di vino.

La firma si riconosce nel bicchiere. Ogni lavoro ha qualcosa di autobiografico e Ferrini che fa sangiovese per sé, nell’azienda di sua proprietà, è autobiografico nei fatti. Due ettari e mezzo a Montalcino verso Sant’Angelo di filari di sangiovese che non vedono altro che il monte Amiata e dove Ferrini alleva almeno dieci cloni differenti selezionati durante la lunga esperienza con questo vitigno iniziata come agronomo nel Consorzio del Chianti Classico.

Giodo 2011 ha un frutto riconoscibile anche nella zona di provenienza che onestamente mi ha sorpreso perché avrei scommesso nel Chianti Classico. Prodotto in pochissime bottiglie (in Italia ne circolano 600 e solo 300 di Brunello) è un vino accorto che non calca la mano e con un’estrazione bilanciata. L’ingresso è morbido, i tannini elegantissimi e un’acidità fresca, tonica che conferisce ritmo alla beva piacevole e dal finale persistente. Il sentore di legno non disturba, anzi, mi rimette in pace col rovere.

Mi piace parlare di sangiovese, di sangiovese a Montalcino, se lo merita, è il fulcro dell’enologia italiana e mi consola riscoprirlo in purezza e finalmente libero dalle contaminazioni di stile degli anni passati.

Ho saputo che Ferrini non consegna i suoi vini alle guide e non vuole punteggi. Stai sereno Carlo, anche i voti mi fanno venire l’orticaria.

 

Trebbiano d’Abruzzo 2010 Valentini in anteprima. Lettera scritta a mano inclusa

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Trebbiano d’Abruzzo 2010 Valentini in anteprima. Lettera scritta a mano inclusa

La differenza fra produttori di vino artigianale e industriale è piuttosto confusa, a quanto sento in giro ma, di certo, non possiamo non considerare Francesco Paolo Valentini un artigiano a tutti gli effetti. Forse l’artigiano per antonomasia, a pensarci bene, ecco perché si è ben guardato da commistioni con l’insanabile, noiosa diatriba fra produttori naturali e convenzionali. Ho provato il nuovo Trebbiano 2010, in uscita a un anno di distanza dal 2011 che i Valentini decisero di anticipare in quanto decisamente più pronto. Oramai è diventata consuetudine per l’azienda anticipare o posticipare l’uscita del millesimo e questo è coerente con la natura che, evidentemente, predispone ogni annata diversa da tutte le altre. “Il vino artigianale testimonia l’annata, nel bene e nel male, ha i suoi tempi un po’ come l’animo delle persone” dice Francesco Paolo Valentini “alcune maturano prima, altre dopo”. Indipendentemente dal riscontro anagrafico, non fa una piega.

Il Trebbiano 2010 è un vino armonico, di struttura, con alta gradazione e buona acidità. Tutto questo si traduce in equilibrio, grande stabilità e lenta evoluzione. Il frutto è ricco, si sente che viene da un millesimo speciale. Speciale nel risultato, ma tutt’altro che facile da gestire: sono mancate solo le cavallette, ma fra pioggia, temperature minime nel mese di giugno intorno ai 14 gradi e tanta umidità, la peronospora s’è divertita parecchio. Così come l’oidio, del resto, che coi repentini sbalzi termici fra il giorno e la notte, ha fatto il comodo suo senza chiedere permesso. E con un’annata del genere, fra gli ultimi singulti di un terremoto dimenticato anzi tempo, che ancora pretendeva di assestare quello che aveva salvato dalla catastrofe, poteva mancare una leggera grandinata il 9 settembre, nel momento più delicato per la maturazione delle uve? Ma la natura (che comanda a pieno titolo) è potente, indipendente, autonoma e molto cruda se decide. Poi, di contro, offre grazia e bellezza senza misurarne peso e valore.

Nonostante queste avversità l’uva arrivò pressoché sana alla vendemmia che, a causa del freddo, iniziò in ritardo, il 28 di settembre. Posticipo (un tempo era la norma) che ha dato una perfetta maturazione del frutto: grazia salvifica in un’annata come quella. D’altra parte le vendemmie precoci raramente danno vita a vini molto longevi come, di certo, sarà questo Trebbiano 2010.

Nel bicchiere ho trovato un’evidente carica proteica che conferisce sostanza, densità, carattere e corpo. Una velatura che non reputo un difetto in un prodotto artigianale, ma una caratteristica, se non addirittura un insegnamento, come ama ripetere il nostro: “non dobbiamo fermarci all’apparenza ma arrivare alla sostanza, del vino come delle cose”.

È una bottiglia pronta e molto buona che, in proiezione futura, si avvicinerà ai grandi capolavori del vino e ha un potenziale di invecchiamento sul quale scommetterei gli ultimi affetti che mi son rimasti.

Credo di aver provato uno dei migliori vini bianchi italiani degli ultimi anni e uno dei millesimi meglio riusciti in casa Valentini. E non crediate che Francesco Paolo abbia risposto alle mie domande su questo vino per telefono. Mi ha scritto una lettera, a mano, con la stilografica, come ama fare da sempre. Lo ammiro anche per questo.

Dillo@Cristiana. Non c’è niente che non puoi chiedere alla tua dottoressa di fiducia

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Dillo@Cristiana. Non c’è niente che non puoi chiedere alla tua dottoressa di fiducia

Cara Cristiana, sono un’appassionata di vino e investo tutto quello che guadagno in grandissime bottiglie. Di recente ho anche mollato il fidanzato, un po’ perché non me ne fregava niente e poi perché beveva limoncello. Oltre ai vini costosi mi piacciono le scarpe di Louboutin (ma anche Jimmy Choo e Manolo Blanik), le borse di Hermès, soprattutto la Birkin di coccodrillo e adoro, ma proprio ADORO, il beach di Montecarlo che è una spiaggia troppo figa e molto comoda per via della colata di cemento al posto della sabbia (che sporca di brutto e annulla l’effetto slanciante del tacco 12) ed è perfetta per i tuffi a cufaniello con la rincorsa. Insomma, vado al dunque, anche se un po’ mi vergogno: voglio diventare ricca, come posso fare?

P.S.: complimenti per le meches, non ti si vede un capello bianco manco a cercarlo col lanternino. Credo che molti anni fa, quand’eri giovane, devi essere stata una donna bellissima. 

Chiara 

Cara Chiara,

qui siamo di fronte a un caso tipico di nevrosi che, presa per tempo, si può risolvere evitando che degeneri in vera e propria psicosi paranoica. Quindi la buona notizia per te, mia chiara cara (sorry, intendevo mia cara Chiara) è che abbiamo una cura. Segui questi punti con attenzione e fammi sapere, non prima di settembre perché adesso vado in ferie e stacco tutto.

- Ruba le borsette delle tue amiche che, di ‘sti tempi, valgono più del contenuto dei portafogli. Poi insieme decidiamo il da farsi. Intanto fottile!

-  Se hai regali in oro dei tuoi ex, dalle medie in poi, portali allo squaglio. Poi decidiamo il da farsi. Ricontattami col lingottino in mano, sempre dopo settembre perché adesso vado in ferie e stacco tutto.

-  Se le grandi bottiglie di cui parli, e sulle quali hai investito i tuoi guadagni, hanno a che fare con La Tache, Petrus, Cros Parantoux di Henry Jayer e Krug Clos du Mesnil e non con la Falanghina di Grotta del Sole, mandamele immediatamente con un DHL, sbrigati che devo controllare i livelli prima di decidere il da farsi. A settembre, dopo le ferie, ti faccio sapere, contaci!

- Quando la sera ti rompi i coglioni, invece di scrivere su Facebook agli altri che stanno a cena e se stanno a divertì, esci e cerca rame. Fili di rame ovunque. Più lunghi e grossi sono e meglio è. Se tua mamma ha quei braccialetti di rame anni ‘70 che dovevano levare il mal di testa ma, in pratica, non toglievano una mazza, falli sparire, tanto tua madre non se ne accorge e ricontattami, sempre dopo settembre perché prima vado in ferie e stacco tutto.

- Se hai meno di 75 anni, non arrivi a 100 kg e hai una bella matassa di pelo sullo stomaco, ma soprattutto sei di ampie vedute e aperta a nuovi incontri, vai un paio di sere da sola all’Harry’s bar di via Veneto a Roma o negli alberghi di lusso in zona. Sparati uno o più cocktail (con un accordo a pié di lista te li rimborso, ma devi portarmi le ricevute intestate) e guarda intensamente qualche babbione nelle palle degli occhi, ma con un solo occhio, bada bene, ché l’altro ti serve per controllare la tasca del pantalone.
Le carte di credito stanno nel taschino della giacca e non ci interessano, ma il contante, quello bello scrocchiarello che piace a noi, lo tengono in un fermasoldi ben sistemato nei pantaloni. Il terzo occhio, quello per guardare quello che volevi guardare, lascialo perdere che non serve, è una perdita di tempo e non risolve la tua patologia.

Comincia la cura e ne riparliamo per proseguire la terapia e arrivare al dunque, inteso come completa risoluzione del tuo (e pure del mio) problema. Ricontattami a settembre ché prima vado in ferie e stacco tutto.
P.S: da giovane ero un gran pezzo di figliola.

Amici, questo è il numero zero, la posta di Cristiana partirà a settembre. Avete quesiti irrisolti e nodi da sciogliere? La vita non vi sorride come dovrebbe? Qualcosa non va per il verso giusto e serve l’aiuto amichevole di una persona veramente esperta? Scrivete a cristiana.intravino@gmail.com. Astenersi perditempo, permalosi, lumaconi e tromboni.

Dillo@Cristiana. Ibiza, Magaluf e quella strana sindrome estiva di mio marito

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Dillo@Cristiana. Ibiza, Magaluf e quella strana sindrome estiva di mio marito

Cara Cristiana, sono di ritorno da una vacanza a Ibiza con mio marito che di mestiere fa il controllore sul tram; è un tipo molto ligio e intransigente nell’esercizio delle sue mansioni, quasi ossessivo, e questo mi preoccupa.
A Ibiza non ha fatto altro che controllare chiappe e tacchi 12, che lì si usano pure in spiaggia, con una cura quasi maniacale. L’ho visto con carta e penna in mano in più di un’occasione, pertanto deduco che abbia addirittura multato le signorine, tanto per dirti che livello di ossessione abbia per il suo lavoro. Alcune volte è anche sparito e vorrei capire se questo bisogno di chiudersi in se stesso in una cabina in spiaggia sia un campanello di allarme della depressione. Disturbo che lo colse già tre anni fa e che andò a curare a Cuba lasciandomi a casa.
Sono molto preoccupata per la sua salute e ti confesso che sto bevendo molto ultimamente, troppo. Mi succede sempre più spesso di alzare il gomito. Come posso fare? Dammi una mano perché amo mio marito e mi sono stufata del Fernet Branca.

Ignazia

Cara Ignazia,

ho scelto la tua fra decine di lettere di casi anche più gravi perché voglio dare un segnale di speranza ai nostri lettori. Esiste una cura sperimentata dalla sottoscritta ed efficace: andate a Magaluf, dalle parti di Maiorca. A Magaluf non c’è tanto Fernet Branca ma in molti locali troverai interessanti verticali di Mateus a prezzi vantaggiosissimi perché di enoturisti non ne passano; l’attrattiva di Magaluf ha più a che fare con i sintomi di tuo marito. Non conoscendolo non so se ci sia già stato (potrei averlo visto di spalle ma da quelle parti non c’è tempo per convenevoli e formalità del genere) e, comunque, non ho dubbi che ci tornerebbe volentieri.

La peculiarità del luogo è che la terapia, di coppia e di gruppo (ma non più di 30), si concentra sullo sviluppo di relazioni che irradiano dalla persona verso tutti i circostanti, i passanti, gli astanti, e via di questo passo, in una forma molto libera dai vestiti e dai condizionamenti di questa decadente società borghese.

Ti consiglio di accompagnarlo, mia cara Ignazia perché, altrimenti, chi controlla i controllori?
Tienimi aggiornata.

P.S.: Se mi incontri fuori studio e a Magaluf in particolare, noi non ci conosciamo, per questioni deontologiche, tutela della privacy e soprattutto per evitare conflitti di interesse.

[Foto: Francesco Bertocci]

Devo berlo per forza? 10 scene tipiche di vita vissuta, purtroppo

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Devo berlo per forza? 10 scene tipiche di vita vissuta, purtroppo

Se siete qui a leggere Intravino è facile che qualche bottiglia buona l’abbiate incrociata strada facendo. Non si scivola per caso su siti come questo, un po’ come quando vi parte il dito su youporn.

Il vino è un piacere per molti, sincera passione per altri e, per qualcuno, il mestiere con cui guadagnarsi da vivere. Ma in mezzo a tutto questo amore, passione e sacro fuoco, arriva anche il giorno in cui, di fronte a un vino pessimo o semplicemente eccentrico, ti assale il desiderio di fuggire a gambe levate. Purtroppo non è sempre possibile.

Per la serie: “io questo vino non vedo l’ora di perdermelo”, leggete qua.

Al bar sotto casa: maledetto prosecchino
Ma come le lavate le “fluttine”, con la pasta abrasiva? Chi avete assunto come lavapiatti, un istrice? Tutte graffiate, crepate, piene di calcare e poi come faccio a bere che non so dove mettere il naso, non entra. Ideona: lo metto fuori il mio naso, lo tengo oltre i confini della flûte, così gli risparmio l’esame olfattivo di ‘sta zozzeria, povera stella.

Cena di lavoro. Il vino lo sceglie il capo, il boss interplanetario
Chiaramente il boss sceglie lo Champagne più economico della carta spacciandolo per una sua scoperta una sua invenzione: “Conosco il produttore!”, e ordina Möet & Chandon. Al prossimo giro ti racconterà di quel meraviglioso pomeriggio a pesca di salmoni con l’inseparabile amico Johnnie Walker.

Matrimonio in chiesa. Volevo essere Vin Santo
Porca miseria che schifezza immonda, ma che roba è? Melma, fanghiglia, c’è una carpa che nuota lì dentro, come fanno a dire che questo è vino? Mi hanno annunciato una transustanziazione ma qualcosa non ha funzionato perché nel mio calice non s’è transustanziato un bel niente e ora mi tocca bere questo vinaccio dolce e tremendamente ossidato. Abbasso lo sguardo, ripercorro con la mente in pochi, brevi istanti gli anni astemi della mia giovinezza, bevo quel vino e di lì a poco mi ritrovo sposata… Ma che jurnat’emmerd’!

In aereo col Soave B****
No, il soave di B**** no, per piacere! E adesso come faccio a scendere che hanno chiuso il portellone? ‘Sto coso sta partendo, il tipo ai comandi fa sul serio, questo decolla, porca paletta! Ho sentito che a un amico in prima classe di aeroflotta da ricchi hanno offerto calici di Dom Perignon a strafottere finché non è atterrato. Guardo fuori, sono molto triste e i finestrini non si aprono.

L’albergo di proprietà di produttori di vino
Bello ‘sto posto, quasi quasi mi faccio un aperitivo. Vedo la suggestiva vigna di Cascina Francia a destra e una mezza bottiglia di nebbiolo nel frigo bar a sinistra. Essa non evoca cascine, non ricorda la Francia e ha trascurato di trattare quel nebbiolo coi guanti di velluto come avrebbe fatto Giacomo Conterno. Ora, io mi domando: ma perché il Baron de Rothschild non compra un po’ di alberghi da queste parti?

Il vino del parrucchiere: da Coppola
Vabbè una piega ai capelli per 60 euro non è certo a buon mercato ma almeno mi offrono un calice di vino prodotto nell’azienda di proprietà (che di recente hanno venduto). Vino? Ho detto vino? Ma no dai è un refuso, non fate tanto i precisini, può capitare.

Il vino a pranzo dai parenti (o anche: il digestivo homemade version)
Qui non ci capisce una mazza nessuno, ecco perché si apre un novello che stava in bella mostra sulla mensola del camino dal 1974. Pensavi fosse un soprammobile o la madonnina dei miracoli di Lourdes, quella col tappo azzurro. Ti versano il vino/camino, invochi un miracolo ma la marcata nota fumè suggerisce che il diavolo ci ha messo lo zampino.
Esiste anche la variante a fine cena: va bene “il mio limoncello, il mio nocino”, ma te la cavavi molto meglio quando preparavi la marmellata di fichi addizionata col fruttapec.

La cena con gli amici, tutto compreso: “prenoto io raga, 20 euro e c’è anche il vino”
Questa è successa a tutti. L’amico Filini è stato così diligente che si può anche scegliere tra un bianco contemporaneamente acido e ossidato e la sua versione spumante. Allo stesso prezzo, wow!!!

La degustazione al supermercato
L’immancabile signora di mezza età con camice bianco: di mestiere fa la promotrice. Mini cubetto di mortadella con lo stecchino, mezzo cracker rotto con su una trapunta di gorgonzola al mascarpone e tanto Gotto D’Oro nel bicchiere da caffè di plastica. Oppure la colomba in promozione (prossima alla scadenza, è solo questione di attimi) con l’Asti Tosti. Se seguite l’intero percorso sensoriale uscite fosforescenti dal supermercato, per la gioia dei più piccini.

E, per finire, la strenna natalizia col gran nocciolato Maina e il Moscato Pancia
Solo una domanda, scusate: devo bere per forza anche questo? No dai, fra poco è Natale, questo lo riciclo.

 

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