
Sono di ritorno da un interessante viaggio di lavoro in Cina, tra Pechino e Shangai, dove ho incontrato ristoratori, sommelier, distributori di vino, responsabili acquisti food & beverage di due importanti catene alberghiere internazionali (presenti nelle due metropoli), e qualche giovane più sveglio di altri che sta per avviare un’attività di importazione e distribuzione di prodotti alimentari dall’Italia e che terrò d’occhio con fondato interesse. Sentivo la necessità di rendermi conto da vicino di ciò che accade in un paese con una crescita rapida e sconvolgente, per certi versi, soprattutto per noi europei, poiché la crisi grave del nostro continente è sì del debito e della moneta, ma anche, innegabilmente, della capacità di produrre idee e progetti innovativi, purtroppo. (Suggerisco un’interessante lettura: Tra poco la Cina, di Davide Cucino, sinologo che vive a Pechino dagli anni ’80).
La Cina online corre come un treno, difficile starle dietro soprattutto per noi, ancora così ostili nei confronti della rete. Là il mercato ecommerce, ad esempio, è molto sviluppato e non solo nelle grandi metropoli: dai computer alle merendine, gli acquisti online sono pratica quotidiana un po’ per tutti. C’è una larga diffusione dei blog in Cina, postano e commentano come forsennati e c’è gente che è arrivata a 500.000 follower in poco tempo. Le persone che conquistano così visibilità e credibilità sono molto considerate e, qualunque sia il settore, diventano opinion leader, non poveri dilettanti come noi. In Italia, invece, mi pare che il pubblico si divida fra chi non usa la rete (ancora troppi) e chi la teme, quindi tenta di contrastarne la diffusione parlandone male, come fosse un gioco di squadra, una questione di schieramenti.
Che in Cina sia crescente l’interesse nei confronti del vino e del vino italiano, è dato acquisito e tema trattato, oramai, anche sulle riviste dal barbiere. Non è altrettanto scontato che questo si traduca in consumi diffusi immediati. Non basta, a quanto ho visto, darsi pena per piazzare bottiglie di vino presso un distributore, confidando che questi le rivenda ad un pubblico che di vino sa quasi nulla. Il fatto che in etichetta sia indicata la data di scadenza la dice lunga sulla cultura dei cinesi in materia. Però il vino li affascina e li sta conquistando, tant’è che lo producono e gli enologi sono di scuola francese, (Bordeaux, ça va sans dire). Se non ci lasciamo precedere da cileni e australiani, c’è spazio per parlare di vino italiano, per insegnare a bere italiano (ottima qualità a prezzi avvicinabili) in concorrenza con i grandi chateau francesi, perché la firma è firma e ai cinesi le firme piacciono e in parecchi se le possono anche permettere.
I cinesi sono un miliardo e trecento milioni. Circa il 9-10% conduce una vita molto agiata mentre i milionari che possono comprare etichette di lusso, soprattutto francesi, sono l’1%. Nell’immediato futuro non sarà più il brand esclusivo ad avere il centro della scena: i consumi dei grandi chateau sono in calo mentre il vino italiano è in fase di conquista di una classe medio-alta fatta da milioni e milioni di persone. Ci sono già ottime carte dei vini con forte presenza italiana, di varie zone, Etna compreso, e il vino al calice ha ampia diffusione, tant’è che mi hanno parlato a Shangai di prossime aperture di wine bar brandizzati. Mi sembra un bel passo avanti, fossi un produttore di vino italiano, ci penserei e subito, perché i cinesi corrono, mordono il freno. C’è tanto spazio per la comunicazione del vino in Cina, non stiamo con le mani in mano. Amici blogger, dico anche a voi.